È noto come i criteri più comuni per determinare l’identità di ciascun individuo vanno dal radicamento in una specifica comunità, all’appartenenza a una tradizione religiosa e a una storia particolare, alla condivisione di una lingua e di un patrimonio culturale. Il processo identitario mediante l’assimilazione di questi criteri può svilupparsi
come l’innalzamento di una barriera che tende a chiudere, a isolare, a difendere l’identità di un soggetto contro influenze esterne, portando a fenomeni di intolleranza, di arroganza, di fondamentalismo, o può svilupparsi come l’apertura al confronto, al dialogo con il “diverso”, all’incontro con l’altro, così come avviene nella prospettiva psicologica dell’identità individuale nella quale ogni singolo individuo si costruisce in tempi, modi e ambienti diversi, crescendo nella relazione, negli affetti, nei rapporti interpersonali. Ora, due fenomeni, in particolare, condizionano nella nostra epoca questo processo identitario e richiedono, perciò, di essere studiati e affrontati con spirito costruttivo e dialogico: la globalizzazione e la rivoluzione biotecnologica. La globalizzazione non è solo un fenomeno di carattere economico. In realtà, ha una chiara valenza culturale e influisce profondamente anche sulla formazione delle persone, sui modelli di pensiero, sui costumi di vita, sulle tradizioni religiose, con serie conseguenze sulla stessa antropologia e sulla relativa visione dell’uomo. Anche la rivoluzione biotecnologica, dal canto suo, modifica i modi del pensare e dell’agire e, quindi, del vivere. Di fronte a questi due fenomeni il cristiano pone la domanda fin dove la ricerca scientifica, che sfocia in una nuova cultura sia autorizzata a violare i confini della natura umana, ignorando il principio fondamentale che, se tutto è permesso all’uso della scienza per l’uomo, non tutto è permesso all’uso dell’uomo per la scienza. I fenomeni della globalizzazione e della rivoluzione biotecnologica, infatti, sono la componente culturale dell’identità umana, la quale deve rapportarsi sempre alla componente naturale della medesima. Tale rapporto oggi è diventato molto problematico, perché la stessa natura umana è stata culturalizzata, nel senso che viene ripensata, rivoluzionata, trasformata. Non si vuole cambiare solo qualcosa intorno all’uomo, come nel caso delle innovazioni delle telecomunicazioni e dell’informatica, ma qualcosa dell’uomo stesso, della sua essenza. È mia convinzione, ora, che la concezione dell’uomo come immagine di Dio proposta dall’antropologia cristiana, se correttamente intesa e articolata, sia in grado di garantire e difendere la vera “umanità” dell’uomo. Una tale concezione è capace di sostituire una identità “aperta”, nel significato di debole, modulare, precaria, impersonale, con una identità “aperta”, nel significato di forte, universalistica, esemplare, non esclusiva, adottabile da ogni uomo, sotto ogni orizzonte di tempo e di cultura. La Chiesa, dice il Concilio, può contribuire molto “a umanizzare di più la famiglia degli uomini e la sua storia”,”risanando ed elevando la dignità della persona, consolidando la compagine dell’umana società e conferendo al lavoro quotidiano degli uomini un più profondo senso e significato”(GS 40). Nel caso specifico, la Chiesa risana ed eleva la dignità umana, non limitandosi solamente a chiedere che la dignità inalienabile di ogni uomo sia giuridicamente garantita, ma anche che sia concretamente rispettata e che non venga mai messa a libera disposizione della società neppure nei casi conflittuali. La Chiesa svolge sostanzialmente il ruolo di “sentinella di umanità”, in una posizione che non la colloca all’esterno, come dirimpettaia della storia, per intervenire solo con denunce e documenti, ma che la coinvolge “con le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, non essendovi nulla di genuinamente umano che non trovi eco nel suo cuore” (GS 1).
+ Ignazio Sanna