Cimitero Cittadino, 2 novembre 2015
La speranza nella risurrezione illumina e conforta il nostro rapporto con la morte e con i fedeli defunti. Questa, in breve, è la sostanza del messaggio cristiano contenuto nella liturgia della parola ora proclamata in questo cimitero cittadino.
La figura di Giobbe, simbolo tradizionale di sofferenza paziente (Gb 19, 27), e l’Apostolo Paolo, animatore delle prime comunità cristiane (Rm 5, 5-11), concordano nell’esortare i fedeli a nutrire ferma fiducia nella risurrezione dei morti. Gesù, poi, promette solennemente a colui che crede in Lui la vita eterna e la risurrezione nell’ultimo giorno (Gv 6, 40). Il messaggio della Parola di Dio, dunque, è molto chiaro. Il destino dell’uomo dopo la morte non è il nulla ma la risurrezione e la vita eterna. Questa verità di fede ha confortato e continua a confortare coloro che soffrono per la morte di un genitore, di un parente, d’un amico, anche se essa non riesce sempre a lenire il dolore delle molte tragedie della vita e, allora, la tentazione della protesta è più forte della volontà di accettare i piani di Dio. Ricordiamoci che lo stesso Gesù, nell’orto degli ulivi, davanti alla morte imminente, chiese a Dio suo Padre se fosse possibile esserne liberato (Mt 26, 40). Il conforto della fede, quindi, non elimina la presenza del dolore, anche se ci assicura che colui che è morto è ormai alla presenza di Dio e, con il Cantico di S. Francesco, ripetiamo che “è servendo che si vive con gioia, perdonando che si trova il perdono, è morendo che si vive in eterno”.
In realtà, la morte suscita paura e interrogativi per tutti, cristiani e non cristiani, indifferenti e praticanti, santi e peccatori. Racconta il confessore di Madre Teresa di Calcutta che anche lei, quando si sentì prossima alla fine, tremava e aveva timore di morire. D’altra parte, nessuno conosce come sia l’esistenza dopo la vita terrena. Il catechismo della Chiesa cattolica ci dice solamente che “ogni uomo fin dal momento della sua morte riceve nella sua anima immortale la retribuzione eterna, in un giudizio particolare che mette la sua vita in rapporto a Cristo, per cui o passerà attraverso una purificazione, o entrerà immediatamente nella beatitudine del cielo, oppure si dannerà immediatamente per sempre” (CCC, 613). In altri termini, il Catechismo afferma l’esistenza del Paradiso, del Purgatorio, dell’Inferno. Queste realtà ultraterrene, dalla letteratura e dall’arte, sono descritte con simboli e immagini, come fa Dante Alighieri nel poema della Divina Commedia o Michelangelo Buonarroti nel Giudizio Universale della Cappella Sistina, mentre, dal cristiano comune, sono vissute come promessa della gioia senza fine, come speranza della purificazione definitiva, come paura della condanna eterna.
Se siamo onesti, dobbiamo ammettere che non pensiamo spesso e tantomeno volentieri a queste ultime realtà. Rimoviamo il pensiero della morte. Fino a una certa età, ci sentiamo eterni. La morte è qualcosa che avviene fuori di noi. Per tutti, però, prima o poi c'è un momento in cui si prende coscienza che "anch'io muoio". Anche la mia vita finisce. La morte non riguarda più soltanto gli altri, ma è una realtà che fa parte di me. La presa di coscienza della nostra morte da immortali ci rende mortali. Pensare alla morte, tuttavia, non vuol dire che si vive per morire. La vita è vita, e non è finalizzata alla morte. La vita, però, è se stessa, cioè è autentica, quando tiene conto che è destinata a finire. Allora, la morte è ciò che conferisce serietà alla stessa vita.
Purtroppo, la morte di cui continuamente ci parlano i mezzi di comunicazione è una morte contesa fra chi vuole l’eutanasia e chi il prolungamento della vita a ogni costo; fra chi chiede di morire con dignità, decidendo autonomamente tempo e luogo della sua morte, e chi vuole rispettare il dono della vita sino alla fine naturale. Una cosa, comunque, è certa: la vita è un dono. Essa non ha avuto inizio quando lo abbiamo deciso noi, e non ha termine neppure quando lo stabiliamo noi. L'esistenza umana è come la volta del firmamento sulla quale appendiamo le stelle dei nostri desideri e dei nostri progetti, la tela sulla quale disegniamo i contorni del nostro futuro. Ma questo firmamento, questa immensa tela celeste sulla quale disegniamo il mosaico della nostra vita e della nostra felicità ci sono stati concessi solo in prestito e li dobbiamo restituire.
Ora, la fede cristiana lega la morte alla risurrezione. Anzi, per S. Paolo, la nostra fede sarebbe vana, inutile, assurda se non ci fosse la risurrezione (1Cor 15, 14). Egli è stato il primo ad occuparsi della dottrina cristiana sulla morte e sulla risurrezione. La risurrezione riguarda tutta la persona, corpo compreso. Ma con una importante precisazione: la risurrezione, infatti, sarà l'inizio di una vita perfetta; non ci saranno più sofferenze, fatiche, dolori, tutto sarà trasformato, anche il corpo. Ovviamente, il corpo di adesso ed il corpo risorto non saranno totalmente simili. San Paolo fa l'esempio di un seme e di un albero: il seme sotto terra marcisce, solo allora darà vita ad un albero. Così sarà il corpo risorto: il corpo attuale è come il seme, il corpo risorto è il grande albero che nascerà da quel seme e punterà verso l'alto. Nella prima lettera ai Corinzi, S. Paolo scrive: "Si è sepolti mortali, si risorge immortali. Si è sepolti miseri, si risorge gloriosi. Si è sepolti deboli, si risorge pieni di forza. Si seppellisce un corpo materiale, ma risusciterà un corpo animato dallo Spirito” (1Cor 15, 43-44).
La fede cristiana, infine, ci assicura che la morte non spezza i legami di affetto che abbiamo con i i familiari, i parenti, gli amici, i conoscenti che ci hanno preceduto nel segno della fede. Infatti, noi cristiani pellegrini sulla terra, coloro che si purificano nel Purgatorio, i beati del Paradiso rimaniamo strettamente uniti nella comunione dei santi, così che i beni degli uni sono i beni degli altri. Il nostro rapporto con i morti è confortato da questa bella preghiera di S. Agostino per la morte di un amico: “Non piangere per la mia dipartita. Ascolta questo messaggio. Se tu conoscessi il mistero immenso del cielo dove ora vivo; se tu potessi vedere e sentire ciò che io vedo e sento in questi orizzonti senza fine, e in quella luce che tutto investe e penetra, non piangeresti. Sono ormai assorbito dall’incanto di Dio, dalla sua sconfinata bellezza. Le cose di un tempo sono così piccole e meschine al confronto. Mi è rimasto l’affetto per te, una tenerezza che non hai mai conosciuto. Ci siamo visti e amati nel tempo: ma tutto era allora fugace e limitato. Ora vivo nella serena speranza e nella gioiosa attesa del tuo arrivo tra noi. Tu pensami così. Nelle tue battaglie, oriéntati a questa meravigliosa casa dove non esiste la morte e dove ci disseteremo insieme, nell’anelito più puro e più intenso, alla fonte inestinguibile della gioia e dell’amore. Non piangere, se veramente mi ami”.