Cimitero cittadino, 1° novembre 2013
Quest’anno, la coincidenza dell’orario della messa di commemorazione dei fedeli defunti con la messa vespertina della domenica 31esima del tempo ordinario ci dà l’opportunità di anticipare la celebrazione della memoria dei nostri cari defunti e di collegarla con la solennità di tutti i santi del cielo.
In realtà, esiste sempre un rapporto stretto tra coloro che ci hanno preceduto nel segno della fede e noi, pellegrini sulla terra, in cammino verso la città futura, dove la luce del giorno non conosce tramonto. La letteratura del passato ha interpretato la memoria di questo rapporto con toni di alta poesia, in contrasto con la mentalità individualistica moderna, che la vorrebbe distruggere, facendo prevalere la cultura dell’oblio con la dispersione delle ceneri del defunto e la privatizzazione del dolore. Nel doveroso rispetto delle ragioni che guidano le scelte delle persone credenti e non credenti, voglio sottolineare allo stesso tempo che la spiritualità cristiana non può non curare questo rapporto, in modo particolare con la preghiera per i defunti e il culto dei cimiteri. Proprio questa spiritualità e la felice tradizione che lega il cielo con la terra, i morti con i vivi, l’eterno con il tempo, ci hanno portato questa sera in questo luogo sacro, per condividere nella speranza la fede nel Cristo risorto.
In questa mia breve riflessione, ora, vorrei presentarvi le ragioni per cui dobbiamo coltivare e mantenere il rapporto con i nostri cari defunti e le motivazioni che ci inducono a proiettare la nostra vita negli orizzonti dell’oltre e dell’eternità. Secondo le affermazioni della prima lettera di S. Giovanni, che abbiamo ascoltato poc’anzi, “noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (1Gv 3, 2). E secondo S. Agostino, la vita del cristiano è cercare Dio, la morte trovarlo, la vita eterna possederlo. Anche S. Ignazio di Antiochia ha scritto che noi saremo veramente quello che siamo solo alla fine della nostra esistenza terrena. L’insieme di queste testimonianze ci insegnano che le tessere del mosaico di cui è composta la nostra vita, in risposta al disegno eterno di Dio, costruiscono la nostra identità giorno dopo giorno, fino a quando questa non sarà suggellata dall’intervento della morte. Possiamo dire che la nostra vita è un’opera d’arte composta a quattro mani: quelle invisibili di Dio e quelle visibili d’ognuno di noi. Le mani invisibili di Dio si uniscono alle mani visibili degli uomini e delle donne, per realizzare insieme un progetto di vita, frutto di due amori, opera di due libertà. Questo progetto di grazia e libertà si sviluppa lungo gli anni della nostra vita, che, nonostante per il salmista siano “fatica e dolore e passano presto”, provengono dal cuore di Dio e in Lui solo trovano riposo sulla terra e significato nell’eternità (S. Agostino).
In realtà, il primo giorno della vita è anche il primo passo del cammino verso la morte. Infatti, l’esistenza terrena è un pellegrinaggio che trova il suo compimento nella morte, anche se il significato e il tempo di questo compimento non sono sempre accolti con il conforto della fede. L’esperienza ci dice che sono forti le tentazioni di protesta e di ribellione davanti alle morti precoci, alla morte degli innocenti, alle morti inflitte da calamità naturali e dalla malizia umana. Per il cristiano, tuttavia, la morte è l’ingresso nella vita eterna. Bisogna, perciò, avere il coraggio di guardare in alto e pregare con le parole del salmista: “Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l'aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore: egli ha fatto cielo e terra. Non lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode. Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode d'Israele. Il Signore è il tuo custode, il Signore è la tua ombra e sta alla tua destra. Di giorno non ti colpirà il sole, né la luna di notte. Il Signore ti custodirà da ogni male: egli custodirà la tua vita. Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri, da ora e per sempre.” (Sal 121)
La prospettiva dell’eternità dopo la morte relativizza gli assoluti dell’esistenza terrena e dà il giusto valore alle cose che contano, come l’amore, l’amicizia, la salute, la pace. La vita umana, infatti, non può essere fondata sull’accumulo delle cose della terra. Gesù, nella parabola che ha per protagonista un uomo ricco intento a programmare la sua vita sulla base dei suoi beni, dimostra che una tale logica è senza fondamento. Se è certamente un bene “avere” per vivere è, allo stesso tempo, un male “vivere” per avere, per accumulare, per possedere. Spesso la vita umana è posta dinanzi al dilemma delle due logiche fondamentali che la caratterizzano: il possesso e il dono. La logica del possesso porta a pensare che l’esistenza valga più per quello che si ha che per quello che si è. Si vuole esorcizzare la paura e l’insicurezza della vita con il possesso dei beni terreni, non volendosi rendere conto che l’avere subisce il continuo logorio del tempo e l’esito ultimo che si va preparando per se stessi è soltanto una riserva di morte. La logica del dono, invece, fa prendere coscienza che i beni che si possiedono sono in prestito gratuito, e, quindi, sono da condividere. Gesù mette in guardia da una concezione “proprietaria” della vita, identificata con il possesso sicuro dei beni. Un’esistenza condotta in questo modo è definita “stolta”, cioè vuota e inconsistente (cfr. Lc 12, 16-32). L’alternativa sta nel cercare i veri beni che non arrugginiscono e che danno fiducia alla vita e senso alla morte.
Cari fratelli e sorelle,
il Vangelo che è stato proclamato ci presenta questi beni “altri”, che conducono alla santità delle beatitudini, e che sono accessibili a tutti. Nell’elenco delle beatitudini, infatti, ci siamo tutti: i poveri, gli afflitti, gli incompresi, i miti, i puri di cuore. Le beatitudini riaccendono la nostalgia di un mondo fatto di bontà, di non violenza, di sincerità, di solidarietà. Disegnano un modo tutto diverso di essere uomini, amanti del cielo e custodi della terra, cittadini nel mondo e stranieri nella patria. Nel lungo pellegrinaggio verso la vita eterna, i giusti aprono la strada a tutti gli uomini di buona volontà che cercano Dio con cuore sincero; i puri di cuore suscitano sentimenti di nostalgia e trasparenza a chi antepone l’onestà all’interesse; i misericordiosi dimostrano agli offesi che il perdono è più forte della vendetta.
La santità evocata dalle beatitudini non è accessibile solo a pochi eletti, ma a tutti i battezzati. “Io vedo la santità nel popolo di Dio, la sua santità quotidiana, ha detto papa Francesco. C’è una “classe media della santità” di cui tutti possiamo far parte. Io vedo la santità nel popolo di Dio paziente: una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti anziani che hanno tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno servito il Signore, le suore che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta. Questa per me è la santità comune. La santità io la associo spesso alla pazienza: non solo la pazienza del farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze della vita, ma anche come costanza nell’andare avanti, giorno per giorno. Questa è la santità della Chiesa militante di cui parla anche Sant’Ignazio. Questa è stata la santità dei miei genitori: di mio papà, di mia mamma, di mia nonna Rosa che mi ha fatto tanto bene”.
Questa può essere anche la nostra santità. Essa ci libera dalla paura della morte e ci consegna nelle mani di un Padre, amante della vita e ricco di misericordia.