Cattedrale di Oristano, 12 ottobre 2013
Il tema del nostro Convegno e del cammino sinodale che oggi iniziamo è la parrocchia come Chiesa tra la gente, ossia la parrocchia come presenza di Dio tra di noi. Gesù ha promesso che dove due o tre si sarebbero riuniti nel suo nome, egli sarebbe stato presente (Mt 18, 20).
Come comunità diocesana, ci siamo riunti nel suo nome e sentiamo, perciò, la sua presenza. Certamente, sono molte le vie per cercare il Signore e diversi i luoghi per incontrarlo. La parrocchia, però, è uno dei luoghi più comuni per cercare Dio e incontrarlo. Se la Chiesa è la casa di Dio, la parrocchia è la casa di Dio in mezzo alla gente. Chi entra nella casa di Dio trova la salvezza, perché Dio lo accoglie sempre con la luce della sua Parola e la grazia dei sacramenti.
La Parola di Dio che è stata poc’anzi proclamata ha rievocato la guarigione di Naaman l’Arameo ad opera del profeta Eliseo e quella dei dieci lebbrosi ad opera di Gesù. Questi interventi divini per guarire le persone dalla malattia mettono in evidenza anzitutto il bisogno di salute fisica e morale insito nel cuore di ogni uomo e ogni donna. L’esperienza ci dice che la nostra condizione concreta è quella di un’esistenza fragile e precaria, che fatica a ritrovare la sua unità, il suo volto, la sua bellezza, a liberarsi da solo dalla potenza del peccato e della morte. Gli uomini, perciò, hanno sempre cercato un salvatore, un liberatore. Questa ricerca è stata espressa molto bene dalla domanda che angosciava il giovane Lutero, alle prese con la forza della tentazione: “come posso trovare un Dio benigno”? Dietro quella domanda si nasconde il grido di liberazione da tutte le schiavitù del male, quelle subite e quelle imposte. La risposta di Gesù si manifesta con una serie di gesti concreti che hanno ridato salute fisica e dignità morale a tante categorie di persone. I racconti dei Vangeli ci descrivono Gesù che guarisce i malati dalla lebbra e da ogni altra infermità; che restituisce la vita ai morti; che moltiplica pani, pesci e perfino il vino durante il banchetto nuziale a Cana di Galilea. Gesù rimette i peccati e conforta i peccatori; denuncia e smaschera l’ipocrisia e i vuoti formalismi. Egli è stato il servo sofferente descritto da Isaia, il quale ha preso su di sé le colpe degli uomini, le ha cancellate con il sacrificio della Croce, e ha ricreato l’amicizia con Dio Padre, sorgente e fondamento della vera salvezza. “Se noi manchiamo di fede, ci rassicura San Paolo, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2Tm 2, 13).
La rievocazione delle guarigioni bibliche ci ricorda, in secondo luogo, uno dei doveri fondamentali della Chiesa, quello di curare le ferite della gente e di mostrare il volto misericordioso di Dio. Questo dovere lo ha richiamato papa Francesco nella sua intervista alla Civiltà Cattolica: “Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi, ha detto, è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto”. “La Chiesa a volte, ha proseguito il papa, si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ha salvato!”. “Dobbiamo annunciare il Vangelo su ogni strada, ha concluso, predicando la buona notizia del Regno e curando, anche con la nostra predicazione, ogni tipo di malattia e di ferita”. E’ vero che Gesù è presente e nascosto nell’Eucaristia. Ma è anche vero che, al giudizio finale, saremo interrogati se lo abbiamo visto nascosto anche nelle piaghe dei tanti malati della terra (cfr. Mt 25). Queste piaghe hanno bisogno di essere ascoltate! “Devono essere ascoltate da quelli che si dicono cristiani”, si è raccomandato papa Francesco ad Assisi.
Sentiamo, dunque, il bisogno di salvezza individuale e abbiamo il dovere di curare le ferite del prossimo. Ma, in terzo luogo, dobbiamo anche impegnarci a vivere da persone salvate. I dieci lebbrosi di cui ci parla l'evangelo di Luca (Lc 17, 11-19), per esempio, esprimono tutti un bisogno comune. Essi vogliono guarire. La guarigione, però, ha un esito positivo solo per il samaritano, al quale Gesù assicura che la sua fede lo ha salvato, e negativo invece per gli altri, che, presumibilmente, erano giudei, e del cui destino non si sa più nulla. “Gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero”? (Lc 17, 17-18). Che fine hanno fatto tutti i miracolati di Gesù? Sono guariti, certamente; ma si sono anche salvati? La domanda di Gesù ai lebbrosi guariti da Lui è rivolta anche a ognuno di noi, perché ognuno di noi ha ricevuto la grazia della vita, del battesimo, della famiglia, dell’amore. Ognuno di noi ha provato la liberazione dalla colpa e la gioia della riconciliazione. Come abbiamo tradotto questi doni in comportamenti di solidarietà, di partecipazione, in gesti concreti di carità e di speranza? La semplice appartenenza alla Chiesa o il semplice battesimo non sono sufficienti per renderci testimoni credibili della novità del Vangelo. La stessa Eucaristia, se celebrata con un rito meccanico e ripetitivo, non ci fa crescere nella comunione e nella carità, e rischia di ridurre la fede a vuoto formalismo religioso. Ricordiamoci, poi, che il dono della fede, se viene capito nella sua preziosità, va condiviso con i fratelli meno fortunati ma non meno degni di noi. La fede è comunitaria per essenza. Il Convegno Diocesano che stiamo celebrando ci ha ricordato che tutti siamo Chiesa, e che, quindi, tutti siamo responsabili gli uni degli altri. L’appartenenza al popolo di Dio, ha ribadito papa Francesco, ha un forte valore teologico, perché “Dio nella storia della salvezza ha salvato un popolo. Non c’è identità piena senza appartenenza a un popolo. Nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae considerando la complessa trama di relazioni interpersonali che si realizzano nella comunità umana. Dio entra in questa dinamica popolare“.
In definitiva, ci dobbiamo convincere che il cristiano non può vivere isolatamente se, per natura, è chiamato a vivere e operare comunitariamente. Occorre rispettare questa esigenza fondamentale e trovare modi, tempi, spazi per “fare comunione”, per sentirsi corresponsabili sia della comunionalità che della “diocesanità” della vita di fede. Per questo fine, la parrocchia “è, senza dubbio, il luogo più significativo, in cui si forma e si manifesta la comunità cristiana. Essa è chiamata a essere una casa di famiglia, fraterna e accogliente, dove i cristiani diventano consapevoli di essere popolo di Dio”.
Alla fine di questa riflessione resta una domanda. La stessa che papa Francesco rivolse ai giovani a Rio de Janeiro: “da dove cominciamo”? “Una volta, ha replicato il papa, hanno chiesto a Madre Teresa di Calcutta che cosa doveva cambiare nella Chiesa e da dove bisognava iniziare per cambiare le cose. La risposta fu: da te e da me”! Anche io, come il papa, rubo la parola a Madre Teresa, e vi dico: da dove iniziamo per rinnovare il volto della parrocchia con la promozione della ministerialità e corresponsabilità di tutti i battezzati? Da voi e da me! E allora, apriamo il cuore a Gesù. Egli ci dirà da dove iniziare e che cosa fare.