Funerale di Mons. Umberto Lai

Cattedrale di Oristano, 5 aprile 2014

Tra breve ripeteremo nella preghiera del prefazio: “se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consola la promessa dell’immortalità futura”. Vorrei condividere con voi i sentimenti di dolore e di speranza che questa preghiera ispira a noi credenti.

Anzitutto, non posso negare di sentire tutto il peso della tristezza spirituale per la morte di Mons. Umberto Lai, che ho sempre chiamato familiarmente “Don Umbe”. Di fronte alla realtà della morte che colpisce gli affetti più cari, la risposta della fede cristiana, basata sulla vittoria finale della croce di Cristo su ogni forma di male, diventa improvvisamente fragile, come sono fragili la nostra vita e le nostre forze. Per molti uomini e molte donne, in queste circostanze, la paura prevale sulla fiducia, la protesta sulla rassegnazione. I cristiani sanno che dopo tre giorni Dio risorge, come cantavano i Nomadi con la canzone Dio è morto scritta da Francesco Guccini, ma ciò non toglie che dal nostro animo si levi l’angosciato lamento di Paolo VI davanti alla morte di Aldo Moro: “E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita”.

In Mons. Umberto Lai la comunità diocesana ha perso un valido prete arborense, ministro sapiente della misericordia divina, testimone credibile di passione apostolica e bontà umana. Dopo l’ordinazione presbiterale per mano di Mons. Sebastiano Fraghì, nel 1966, Don Umberto iniziò il suo servizio come animatore nel Seminario Diocesano, per proseguirlo, poi, nelle parrocchie di San Sebastiano, in Oristano, di S. Michele Arcangelo in Aritzo, di Santa Giusta, nel comune di Santa Giusta, e di S. Romualdo in Bonarcado. I fedeli di queste parrocchie sono concordi nel dire che ogni suo abbraccio era una consolazione, ogni sua parola un incoraggiamento. Io personalmente perdo un collaboratore di provata fedeltà e cordiale amicizia dal primo giorno dell’ufficio come Vicario Generale fino ai giorni del ricovero nell’ospedale della SS. Trinità, prima, e nell’oncologico Businco, poi. Da questo secondo ospedale, in data 22 marzo, egli mi ha scritto la lettera di commiato per chiedermi di accompagnarlo con la preghiera ed assicurare l’offerta della sua malattia per l’unità del presbiterio e la buona riuscita del Sinodo Diocesano. Dopo aver rassegnato anche formalmente le dimissioni da Vicario Generale ed aver manifestato i suoi sentimenti di riconoscenza e di affetto filiale, si dichiarava disponibile, se il Signore gli avesse riservato ancora giorni di vita e di salute, a servire la comunità diocesana nelle forme che io avrei ritenuto più opportune.

Non penso servano molti aggettivi per descrivere il suo ministero sacerdotale. La sua umiltà e la sua semplicità non li sopporterebbe. A questo scopo, perciò, basta un solo nome, un sostantivo: prete! Don Umberto era un prete. E’ stato sempre un prete e non ha mai giocato a fare il prete. Il Signore lo ha chiamato alla vita eterna troppo presto, sottraendolo all’affetto dei familiari e alla collaborazione nel governo della Diocesi. La sua morte prematura non ci ha neppure permesso di prendere piena coscienza della gravità della sua malattia, per dimostrargli la riconoscenza che non è stato possibile manifestargli durante l’esercizio del suo ufficio, troppo avaro di gratificazione umana e pastorale. La collaborazione come Vicario Generale è iniziata con una benedizione, che egli ha chiesto, in ginocchio, la mattina del 2 gennaio 2007, nella sede dell’arcivescovado, e si è conclusa con un’altra benedizione, che gli ho impartito la sera di domenica scorsa, 30 marzo, sul letto dell’ospedale Businco.

La conclusione di questo servizio mi ha riservato un momento di particolare e condivisa commozione, quando egli ha voluto a sua volta darmi la sua benedizione dal letto di morte, divenuto per lui santuario di fede e di dolore. In quel momento ho dimenticato tutto, preoccupazioni e progetti, e sono rimasto ammirato e confuso davanti ad un’esemplare nobiltà d’animo e alla potenza spirituale della fede. Il prete è nato per benedire e tu, don Umberto, sei stato prete benedicente sino alla fine. Dall’alto del tuo Calvario, hai steso la mano sul tuo vescovo, che sempre hai sentito come fratello e padre, sulla tua famiglia diocesana, che hai sempre amato e servito. Grazie, don Umberto, perché quella sera, in quella stanza d’ospedale, mi hai fatto sentire orgoglioso di essere a servizio d’un presbiterio arborense che sa pregare e sa lavorare, che sa vivere e sa morire. Quel gesto vale la gratitudine d’una vita e non lo dimenticherò mai.

Due coincidenze accompagnano la morte del nostro Vicario Generale, avvenuta precisamente il due aprile, e costituiscono motivo di consolazione per la promessa dell’immortalità futura: l’anniversario della morte della sua mamma e, soprattutto, l’anniversario della morte di Giovanni Paolo II. Queste due coincidenze sono significative anche per il futuro della nostra esistenza. Il ricordo della mamma, che ha segnato la fronte di don Umberto con il primo segno di croce; di Giovanni Paolo II, che gli ha insegnato a salire sulla croce, ci insegnano che, se la nostra vita è una prova, la nostra patria è in cielo e solo lassù la nostra famiglia sarà unita per sempre.

La terza coincidenza è il racconto del Vangelo odierno. Questo ci presenta tre soggetti e tre atteggiamenti diversi nell’accostarsi a Gesù: la gente, le guardie, i capi dei farisei. A questi si aggiunge Nicodemo, che cerca Gesù con cuore sincero. Gli uni e gli altri hanno difficoltà ad accettare la provenienza geografica di Gesù, la Galilea delle genti, piccola provincia periferica dell’impero romano. Persino il buon Natanaele si chiese se fosse possibile che venisse qualcosa di buono da Nazareth. Ebbene, alla luce di questo racconto evangelico, dobbiamo chiederci in quale gruppo di queste persone vogliamo riconoscerci; come e dove vogliamo cercare Gesù; quale cambiamento nel nostro modo di amare, di sperare, di credere, di agire abbia prodotto in noi l’incontro con Gesù. La gente semplice, quella che i capi e i farisei chiamano gente “maledetta”, ha riconosciuto ed accolto il vero Gesù. Se adottiamo un atteggiamento di semplicità e bontà, come quello che ha sempre contraddistinto don Umberto, anche noi incontreremo il vero Gesù, e saremo profezia di un mondo più giusto e più solidale.

Cari fratelli e sorelle,

qualcuno ha scritto che non sa dove vanno le persone che muoiono, ma sa dove restano: nel cuore di chi le ha amate davvero! Noi sappiamo che don Umberto è andato nella casa del Padre, a ricongiungersi con i confratelli che ci hanno preceduto nel segno della fede, accompagnato dai santi protettori delle sue comunità parrocchiali e in modo particolare dalla Madonna di Bonacatu, la cui immagine con la preghiera per il Sinodo stringe ancora tra le mani. Sappiamo anche, però, che egli rimane nel cuore delle persone che lo hanno amato, per le quali, come prete, è stato padre, fratello, amico. A lui chiedo di benedire e proteggere i nostri seminaristi, che ringrazio di vivo cuore, perché l’anno amato tanto e lo hanno visitato ed assistito con commossa sensibilità sino alla fine. Cari seminaristi, siate gli artigiani della nostra speranza, la promessa del nostro presbiterio, che don Umberto ha sempre sognato unito nel cuore e zelante nel ministero.