Cattedrale di Oristano, 25 dicembre 2008
Cari amici, avete mai riflettuto sul fatto che la festa che celebriamo rischia di essere o di diventare la festa di un aggettivo? La parola “natale”, infatti, è un aggettivo, non un nome. Nel nostro caso, il nome qualificato dall’aggettivo è “giorno”, per cui l’espressione completa e corretta è: il giorno natale. Ma giorno natale di chi?
Quando si celebrò il grande giubileo del 2000, ossia dei duemila anni dalla nascita di Gesù, il card. Biffi, arcivescovo di Bologna, richiamò i cristiani a non dimenticare il festeggiato, e cioè il Signore Gesù, dietro tutte le feste e le celebrazioni. In effetti, in tutte le vicende umane c’è sempre il rischio che le apparenze ci facciano perdere di vista la sostanza, che i particolari ci distraggano dall’essenziale, soprattutto quando, come nel caso ricordato dal piccolo principe, “l’essenziale è invisibile agli occhi”. La cultura popolare e le tradizioni natalizie, consciamente o inconsciamente, potrebbero farci dimenticare l’essenziale, perché scambiano il nome con l’aggettivo, e, così facendo, contribuiscono a mettere tra parentesi il vero significato dell’Incarnazione del Figlio di Dio. Penso che sia estremamente opportuno, allora, sottolineare a chiare lettere che celebriamo il Natale di Gesù Cristo, la venuta di Dio sulla terra, la nascita del Redentore e del Salvatore dell’umanità. In ultima analisi, non celebriamo la festa di un aggettivo, ma quella di un nome, e S. Pietro precisa che “non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati” (At 4, 12).
Ora, la liturgia della Parola di questa messa del giorno di Natale ci offre la possibilità di meditare sul suo vero significato cristiano. Il profeta Isaia, nella prima lettura, invita il popolo alla gioia, alla consolazione, perché il Signore è venuto, il salvatore promesso è arrivato, colui che era stato annunciato dai profeti e atteso dalle genti è nato. Con la nascita del Messia “tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio” (Is 52, 10). La lettera agli Ebrei afferma che Gesù è stato costituito erede di tutte le cose, che il mondo è stato creato per mezzo di Lui, che Egli sostiene tutto con la potenza della sua parola (Eb 1, 3). San Giovanni, infine, accanto alla solenne affermazione che il Verbo si fece carne, menziona subito l’opposizione che la luce incontrerà venendo nel mondo, nonché l’ostilità che i suoi gli opporranno: “la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta; venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1, 10-11). La contraddizione tra l’annuncio di gioia del profeta e il richiamo alla realtà dell’evangelista è stridente e dà da pensare.
Che cosa significa, infatti, che tutti i confini della terra hanno visto la salvezza di Dio, se ci guardiamo attorno e ci rendiamo conto che i cristiani battezzati sono appena il 17 per cento della popolazione mondiale; che essi, in numero assoluto, sono poco più di un miliardo; che i musulmani hanno superato ormai il numero dei cattolici? Forse la promessa del profeta non è stata mantenuta? In quante parti del mondo si celebra oggi il Natale di Gesù Cristo? Come mai si moltiplicano i calendari interculturali che affiancano al Natale, cioè alla data che ha diviso la storia in prima di Cristo e dopo Cristo, le feste che cadono nello stesso giorno o nella stessa stagione? Come mai in molti paesi si cancella la stessa parola di “natale” e la si sostituisce con quella di “buone feste” o “buona festa della luce d’inverno”? Come mai una parte della nostra gente, in questo giorno, compra e consuma panettoni, simbolo della festa natalizia, ma non partecipa alla celebrazione dell’Eucaristia, simbolo della presenza reale di quel Gesù che è nato più di duemila anni fa? È vero che la promessa di Dio esprime una speranza e una tensione verso il compimento futuro; che aspettiamo cieli nuovi e terra nuova alla fine dei tempi; che non conosciamo tutte le vie della salvezza che percorre lo Spirito. Ma se prendiamo sul serio la Parola di Dio e la riteniamo valida anche per il discernimento del nostro tempo, non possiamo sottrarci a queste domande. Esse interpellano la nostra responsabilità di uomini e donne che hanno ricevuto il dono della fede cristiana senza alcun merito e che la devono professare senza alcuno sconto.
L’evangelista Giovanni chiama Gesù il Logos, la Parola, e la Lettera agli Ebrei ribadisce che Dio ha parlato a noi per mezzo di questa Parola. Ma questa Parola ha bisogno di essere pronunciata ancora.
Gesù deve essere annunciato ancora. S. Agostino scrive, a proposito del Precursore, che si definì come una voce che grida nel deserto: “Giovanni Battista era la voce, Gesù è la Parola. Mentre la voce colpisce l’udito, la Parola penetra nel cuore”. Ebbene, oggi noi siamo invitati ad essere la voce di Gesù che penetra nel cuore. Ciò comporta che dobbiamo evitare di dare voce a parole senza significato, a un vocabolario di vuoti luoghi comuni, a promesse consolatorie ed ingannatrici. Ricordiamoci che è la Parola Gesù che ci salva, il Verbo di Dio fatto carne che dà il senso alle cose. Gesù, con le sue azioni e il suo insegnamento, dà significato alla vita e alla morte, alla gioia e alla sofferenza, al presente e al futuro. “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto” (Gv 1, 16).
Se siamo chiamati ad essere la voce che penetra nel cuore, dobbiamo comportarci in modo tale che la nostra voce pronunci sempre le parole profetiche di Gesù, quelle parole che hanno dato salute ai malati, conforto ai sofferenti, perdono ai peccatori. S. Paolo ci esorta a “non spegnere lo Spirito, a non disprezzare le profezie” (1Ts 5, 19), cioè a conservare la consacrazione battesimale e custodire la carica di novità evangelica. Il cristiano, per vocazione e missione, è un profeta di speranza e di libertà. Secondo gli indicatori della sociologia demografica i cristiani saremo sempre di meno nel mondo. Ma ciò non significa che dobbiamo essere meno convinti e meno autentici. Anzi, siamo chiamati ad essere più convinti e più autentici, per diventare il seme buono che porta frutto buono; il sale che dà sapore alle cose; il lievito che fa crescere la vita della fede. Questi simboli biblici non descrivono una presenza ingombrante dei cristiani nella società e neppure una loro quantità numerica, ma un loro compito di animazione, un preciso impegno a dare un supplemento di anima alle attività umane e alle istituzioni civili. È molto significativo che la venuta di Gesù sulla terra sia descritta come un “porre la sua tenda” (Gv 1, 14) in mezzo a noi. Indubbiamente, al tempo della sua nascita esistevano le case, c’erano gli alberghi, le locande, c’erano anche i palazzi e le regge per i potenti della terra. Gesù, però, ha scelto un modo di presenza molto umile, simile a quella dei pastori delle campagne di Betlemme. Vuol dire che Dio ha piacere di essere in mezzo al suo popolo, ha piacere di incontrare persone umili, ha piacere di visitare i luoghi della sofferenza e della povertà.
In conclusione, la spiritualità cristiana ci presenta il Natale sia come una realtà che come una promessa. Essa ci insegna che c’è il Natale della storia e il Natale della vita; il Natale del passato, di 2000 anni fa, e il Natale di oggi, del nostro presente e del nostro futuro. Il Natale di circa 2000 anni fa è quello vero ed è ovviamente il fondamento del secondo. Di conseguenza, non si può continuare a vivere nel Natale virtuale, nel natale dell’immaginazione, della fantasia, dei riti consumistici, degli auguri inflazionati, dimenticando il Natale reale, quello della storia. Occorre vivere nel Natale della realtà, a servizio di una causa che supera le nostre forze, di un annuncio che dà conforto e coraggio, di uno stile di vita che va contro corrente, di scelte morali che incontrano contestazioni violente. Siamo consapevoli di essere chiamati oscurantisti noi che abbiamo creato civiltà; di essere chiamati ignoranti noi che custodiamo patrimoni di cultura; di essere chiamati arretrati noi che creiamo futuro; di essere considerati finiti noi che garantiamo speranza; di essere chiamati nemici della vita e dell’uomo noi che predichiamo l’amore e pratichiamo il perdono.
Non lasciamoci vincere dallo scoraggiamento. Dobbiamo continuare a rendere presente Gesù con la testimonianza dei valori di fede e di vangelo. Dobbiamo far nascere Gesù nel cuore e nella coscienza delle persone. Secondo un’immagine di Sant’Ambrogio, “il Verbo di Dio corre, non prova stanchezza, non è preso da negligenza”. Dobbiamo, perciò, trattenere Gesù nelle nostre case con gesti di carità. Ospitarlo, quando è senza casa. Nutrirlo, quando ha fame. Visitarlo, quando è malato. Consolarlo quando è afflitto. Ognuno sa quale opera di carità può compiere, e, soprattutto sa che c’è più gioia nel dare che nel ricevere. Duemila anni fa ci è stato “dato” un Salvatore (Is 9, 5). A noi la gioia e il dovere di dare ad altri la salvezza che abbiamo ricevuto.