Cattedrale di Oristano, 8 aprile 2007
Gesù è risorto. Ha vinto la morte. La morte e la vita si sono affrontate in modo tremendo e alla fine la vita ha vinto la morte. La malizia dell’uomo non ha prevalso sul progetto di Dio. La potenza del male è stata sconfitta dalla potenza dell’amore. Questo è il messaggio centrale della Pasqua.
Cosa dice al nostro cuore e alla nostra mente questo messaggio di vita e di speranza, legato al canto gioioso dell’alleluia pasquale?
Anzitutto, ci assicura la certezza che la vita umana non finisce con la morte. L’uomo è mortale e, da solo, non può diventare immortale. La mortalità è il meno, l’immortalità è il più. Il meno non può dare il più. Gli sforzi dell’uomo riescono a migliorare le condizioni della vita, combattono molte malattie, ma non eliminano la possibilità di ammalarsi, né tanto meno eliminano la possibilità di morire. Solo un Dio immortale può dare l’immortalità. E Gesù è un Dio immortale, che, nella morte ha vinto la morte.
Il desiderio di immortalità è stata un’aspirazione perenne dell’uomo di tutti i tempi, di tutte le culture, di tutte le religioni, ed è un’aspirazione di ognuno di noi. Secondo il filosofo francese Gabriel Marcel, dire a una persona: “io ti amo, equivale a dirgli: io voglio che tu non muoia mai”. Ma mentre chiunque può dire ad un’altra persona: “io ti amo”, non chiunque può liberare la persona amata dalla morte. L’esperienza ci dice che l’amore di una madre, per quanto forte e intenso, non salva mai il figlio dalla morte. Gesù, invece, come Redentore dell’umanità, ama ogni uomo e ogni donna, li ama sino alla fine, è morto per amore, e ha aperto le porte del cielo ad ogni uomo e donna che non rifiutano il suo amore. La sua nascita nella vita terrena è legata alla nostra risurrezione nella vita eterna.
Un affresco della scuola di Giotto sulla roccia di Greccio dove S. Francesco ha per la prima volta iniziato la rappresentazione del presepio descrive in modo molto originale il legame della nascita con la risurrezione, ossia della protologia con l'escatologia. Esso rappresenta la Madre di Dio che allatta Gesù Bambino. Questi, però, è dipinto ritto dentro un sarcofago ed avvolto dalle bende del sepolcro, per indicare che la sua nascita era legata alla sua morte redentrice e che la fonte primaria del cherigma cristiano è costituita dall'annuncio del mistero pasquale di morte e risurrezione di Gesù.
Quest'affresco mette in luce come sia profondamente vero che "dare la vita" sia sinonimo vuoi di nascere vuoi di morire. Dare la vita è offrire un dono, è un consegnare ad altri o all'altro un qualche cosa che non ci appartiene. La vita e la morte sono più grandi di noi, ci oltrepassano e ci superano. Esse permangono quando noi non ci siamo più e ci sono quando noi non ci siamo ancora. La vita in modo particolare ci sorpassa sempre. La riceviamo in dono e la dobbiamo trasmettere come un dono donato, un dono ricevuto. Essa non è nostra, non ci appartiene. La gestiamo come il dono più prezioso che possediamo. "Avere" la vita è solo o prevalentemente sinonimo di possedere la vita. Avere un figlio, per esempio, esprime l'idea di possedere un qualcuno. "Dare" la vita, al contrario, esprime generosità, altruismo, amore. Vita e morte si uniscono, si intrecciano, "confliggono" in modo originale, si rendono dipendenti l'una dall'altra. Vivere è morire. Morire è vivere. Nascere è cominciare a morire. Morire è cominciare a nascere. Questo è il primo messaggio dell’alleluia pasquale.
C’è un secondo messaggio di vita e di speranza. La liturgia ci invita a cantare l’alleluja pasquale, nonostante la nube del dolore e della morte sovrasti spesso il cielo della nostra esistenza e non solo della nostra. Questo invito liturgico a cantare la vittoria della vita nel mezzo dell’esperienza della morte fa tornare alla mente il triste lamento del popolo ebraico esule a Babilonia. Quel lamento, immortalato dal genio musicale di Giuseppe Verdi, denunciava l’impossibilità di elevare un canto di gioia e di libertà in una situazione di schiavitù in terra straniera. In quella occasione, Dio è rimasto fedele alla sua promessa, e, con un secondo esodo o una seconda pasqua, ha riportato il popolo nella sua patria e nella sua terra. Anche oggi, Dio rimane fedele alla sua promessa, fa risorgere Gesù dai morti, ed accompagna il cammino di fede di tutti coloro che come la Maddalena o i discepoli corrono pieni di timore e di speranza verso la tomba vuota. La corsa della Maddalena e dei discepoli esprime ansia, desiderio, volontà di recupero di una persona cara, di un punto di riferimento sicuro; esprime la necessità di non rassegnarsi alla perdita di un maestro che, poiché aveva “parole di vita eterna”, li aveva aiutati nelle loro difficoltà, li aveva perdonati nei loro tradimenti, aveva costituito per loro un orizzonte di senso e di futuro.
Nell’esortazione dell’apostolo Paolo ai cristiani di Colossi il messaggio dell’alleluia pasquale si traduce nell’invito a guardare in alto, a guardare al cielo, alle cose di lassù, perché dall’alto, cioè da Dio, ci viene la salvezza, ossia il senso delle cose che facciamo, la ragione delle cose che speriamo, la forza delle prove che sopportiamo. Noi uomini e donne di fede e di speranza non abbiamo una fissa dimora su questa terra. La nostra patria è nei cieli, ci ricorda Sant‘Agostino. La nostra vita è un cammino di fede, un pellegrinaggio di speranza, una corsa verso la tomba vuota, non più custodia di morte ma culla di vita.
È certamente vero che si può celebrare la pasqua per fedeltà alla nostra tradizione religiosa, ed è quello che stiamo facendo noi in questa chiesa cattedrale, e che stanno facendo i nostri fedeli nelle chiese della diocesi. Ma è ancora più vero che si deve vivere la pasqua con lo stile della vita e della testimonianza, ed è quello che dovremo fare tutti noi a partire da oggi. La semplice celebrazione della pasqua ha la durata di un giorno e la si ripete una volta l’anno, mentre la vita e la testimonianza della pasqua ha la durata di 365 giorni l’anno. Infatti, essa la si vive tutte le volte che facciamo prevalere la vita sulla morte, l’amore sull’odio, la libertà sull’oppressione, la pace sulla guerra. Forse non è un semplice caso il fatto che la risurrezione di Gesù sia avvenuta senza testimoni oculari. Nessuno ha visto Gesù nel momento della sua risurrezione; i discepoli hanno visto Gesù quando era già risorto e non lo hanno neppure riconosciuto subito. Noi siamo i testimoni della fede; non semplici testimoni di Gesù risorto, ma testimoni che Gesù è risorto. I testimoni del Risorto sono semplici notai di un evento. I testimoni che il Cristo è risorto sono protagonisti di un mondo nuovo. La risurrezione di Gesù è la più grande mutazione della storia, ha detto Benedetto XVI, e noi cristiani siamo chiamati a dare un volto a questa novità, a rendere credibile la speranza nel futuro di una vita eterna che non conosce tramonto. Siamo noi che dobbiamo annunciare al mondo che Cristo è risorto. Siamo noi che dobbiamo annunciare la gioia della risurrezione. Un popolo triste è il contrario di un popolo cristiano. La pasqua di risurrezione è profezia di un mondo nuovo. Il suo annuncio è portato dalle donne, cioè da una categoria di irrilevanza sociale. Esse rinascono donne nuove, diaconesse, discepole, missionarie. È il riscatto dei piccoli, dei deboli, degli emarginati.
I vangeli ci riferiscono che l’angelo ha rotolato la pietra che copriva il sepolcro. Interpretiamo questo fatto come un invito a rotolare le pietre dei nostri sepolcri, del nostro egoismo, delle nostre incoerenze. È necessario rotolare le pietre sepolcrali per uscire da noi stessi, dal buio della nostra malizia, e portare uno spirito di novità e di libertà nel nostro lavoro, nelle nostre famiglie, nella vita della politica, della cultura, dell’economia. La gioia del Cristo risorto sia la gioia della nostra vita.