Cimitero cittadino, 2 novembre 2006
Vi do il cordiale benvenuto a questa celebrazione di speranza e risurrezione, nella quale, in qualche modo, i nostri morti tornano nel mondo dei vivi, per ricordarci che dobbiamo tenere il piede sulla terra e il cuore nel cielo.
Il loro ritorno tra i vivi avviene in un periodo dell’anno, l’autunno avanzato, nel quale anche la terra dorme e si prepara alla prossima primavera. Si potrebbe dire che la natura partecipa al nostro ricordo con la stessa nostra speranza.
Ora, un primo effetto di questo ritorno dei morti è la meditazione e la riflessione sulla vita. Media vita in morte sumus, si diceva nel Medio Evo, per non dimenticare l’approdo inevitabile di ogni vita umana; e si continuava: media morte in vita sumus, per rischiarare la speranza cristiana nella vita eterna. In realtà, alla domanda usuale: la morte, e poi? bisognerebbe sostituirne un’altra: la morte, e prima? E’ infatti la morte che fa capire la vita, così come la fine fa capire l’origine. Per noi cristiani, poi, è la morte di Cristo, seguita dalla risurrezione gloriosa, che fa capire la nostra morte e la nostra vita. Gesù Cristo, secondo la bella espressione di Clemente Alessandrino, “ha cambiato l’occidente in oriente”, ha trasformato la morte in qualcosa di buono, in quanto essa diventa per noi inizio e via di un cambiamento verso il meglio.
Il Nuovo Testamento chiama questo modo di morire, illuminato dalla morte e dalla risurrezione di Cristo, la morte “nel Signore”, che conduce alla beatitudine e che diventa essa stessa beatitudine: “beati i morti che muoiono nel Signore, sin da ora” (Ap 14, 13). La tradizione cristiana, da parte sua, chiama questo stesso modo di morire nel Signore il dies natalis, giorno della nascita a una nuova forma di vita, che non sarà più insidiata dalla morte e che costituisce la situazione definitiva in Cristo. È Cristo, dunque, che, morto e risorto per noi, ci viene incontro e ci conduce là dove noi non abbiamo esperienza ma solo speranza.
La morte di Gesù viene interpretata dagli evangelisti come un’azione, come una “consegna nelle mani del Padre” (Lc 23, 46), come un “andare al Padre” (Gv 14, 2; 16, 7), come “offerta” e “compimento” (Gv 19, 30). Proprio in considerazione di quest’opera di salvezza compiuta nella morte e nella risurrezione da Cristo, il discepolo di Gesù è invitato a “morire con Cristo” (Rm 6, 3.4), al fine di risuscitare con lui. Cristo, mediante la sua vittoria sulla morte, ne ha mutato il senso: da ricompensa del peccato, quale essa è a motivo della nostra solidarietà con Adamo (Rm 6, 23), diventa un avvenimento di salvezza, in considerazione della nostra solidarietà con il Cristo. Il cristiano comincia a morire “con Cristo” sin da quando riceve il battesimo, che lo introduce, appunto, nel mistero della morte e risurrezione di Cristo. Poi, affronta la morte ogni giorno (1Cor 15, 31), perché la morte e la risurrezione di Gesù sono già una realtà che progredisce lungo tutta la sua esistenza. Egli porta sempre e dovunque la morte di Gesù nel suo corpo, perché anche la vita di Gesù sia manifestata in lui (cfr. 2Cor 4, 10-12). Il morire con Cristo è, dunque, uno svolgimento attivo della vita che comprende anche il morire “ultimo”, alla fine dell’esistenza terrena.
C’è anche un secondo effetto di questo ritorno, sul quale vorrei brevemente richiamare la vostra attenzione. Il ritorno dei morti nel mondo dei vivi, infatti, ci fa riflettere anche su una nuova tendenza che si sta progressivamente diffondendo, e, cioè, la privatizzazione della morte. In alcune regioni italiane sono state approvate delle disposizioni di legge che autorizzano la consegna delle ceneri dei defunti cremati ai parenti, i quali possono, secondo la volontà espressa dal defunto, spargerle nel mare, in cima al monte, o custodirle in giardino, o in un loculo predisposto nell'appartamento. In molte regioni della Germania sono sorti i cosiddetti "Boschi della pace", che
sostituiscono i cimiteri tradizionali. Nulla distingue questi boschi della pace da un normale angolo di natura intatta. Nessuna delimitazione esterna, niente aiuole né croci. Le spoglie vengono accettate solo se cremate e l'urna è costituita obbligatoriamente da truciolato biodegradabile. Il massimo concesso all'identificazione del luogo della sepoltura è una targa con il nome del defunto, delle dimensioni di un biglietto da visita, fissata al tronco dell'albero scelto per deporre l'urna, e mimetizzata con il colore della corteccia.
Queste disposizioni in materia di sepoltura, cremazione, dispersione delle ceneri favoriscono indubbiamente una svolta nei costumi dei cittadini. Esse sono la manifestazione più recente di un profondo mutamento della cultura della sepoltura. Nel 2004, infatti, nella città di Milano, le cremazioni hanno superato le sepolture sotto terra. A ben riflettere, ora, la cremazione è un chiaro segno della desacralizzazione crescente di una società nella quale la Chiesa non detta più i codici etici. Questa società toglie ai singoli la fede nella risurrezione dei morti e uccide la speranza della propria sopravvivenza. Le motivazioni per preferire la cremazione all'inumazione, sulle quali non esprimo alcun giudizio, sono le più diverse, e vanno da quella di chi vuole evitare noie ai figli, che non devono più procurare fiori, lapidi o lumini, a chi vuole annientare il proprio cadavere per vendicarsi della vita, che gli ha dato poco e male e quel poco e male glielo ha tolto presto, a chi crede che le cose tutte e l'uomo siano nulla e quindi devono essere incenerite. Si pensa, così, di restituire alla gestione degli affetti privati ciò che resta di una biografia condivisa, invece di abbandonarla nei cimiteri comuni. Spesso, il defunto chiede per volontà testamentaria la sepoltura anonima. Talvolta c'è anche chi ritiene contraddittorio affidare la propria memoria a parenti dai quali si è sentito trascurato in vita, e c'è poi chi invece ha vissuto sempre solo e muore senza avere nessuno vicino. Le caratteristiche tipiche della vita moderna, come la solitudine, l'anonimato, la frantumazione di pratiche comuni tradizionali in forme alternative sempre più individuali, mostrano in questo caso la tendenza a espandersi oltre i confini del vivere fino alla dimensione del morire.
Ora, la privatizzazione delle ceneri è di fatto un abbandono di quella dimensione comunitaria che nella tomba del cimitero trova il suo luogo di memoria e di pietà collettiva. Così, infatti, ha sempre pensato l'umanità di sé fin dalle sue origini quando, rifiutandosi di arrendersi all'insignificanza biologica, ha costruito sulla terra quei recinti sepolcrali e poi quei monumenti alla morte, che, dalle piramidi d'Egitto alle tombe greche, romane ed etrusche, sono a testimoniare la differenza che l'uomo ha sempre percepito tra sé e l'animale. Può il singolo individuo gestire la morte che è stata sempre gestita in modo comunitario, con riti a cui si partecipa collettivamente per diluire il dolore con il conforto? La morte è un evento metafisico che neppure l'amore più grande di questa terra sa reggere e contenere. Per questo gli uomini, tra i viventi gli unici che sanno di dover morire, hanno fatto comunità e hanno lasciato nelle necropoli non i loro resti storici ma memoria perenne della condizione umana. Questa memoria rischia di essere abolita, anche se ciò avviene per amore. Perché, a mio giudizio, non è vero amore, ma possesso, voler trattenere in qualche modo chi, precedendoci, ci ha ricordato la nostra ineluttabile condizione. Il cimitero è e rimane “la città della memoria”, un luogo dello spirito, dove semplici lapidi legano nomi a storie di gioia e di dolore, dove tanti fiori colorano il ricordo delle persone amate, dove miriadi di lumicini illuminano il buio del giorno e della notte, dove la poesia, quella vera, non privilegio dei poeti, sa trovare parole giuste per sentimenti profondi.
Cari amici,
ognuno di noi custodisce nel cuore e nella memoria il ricordo dei propri morti, uniti a noi nella comunione dei santi. Preghiamo, allora, Dio, Padre di misericordia, Signore della vita e della morte, perché il ricordo e la commemorazione dei nostri cari defunti ci aiuti a riscoprire il senso della vita eterna, che vince la precarietà umana, e il dono della comunione con Dio, che supera i confini del tempo.