Cimitero cittadino, 2 novembre 2007
Saluto con viva cordialità i confratelli concelebranti, le autorità civili e militari, tutti voi, cari fedeli che siete convenuti a questa celebrazione della fede e della speranza. La ricorrenza liturgica della commemorazione dei defunti è un’occasione quanto mai opportuna per riflettere sul senso della vita e della morte, alla luce della parola di Dio.
Il cimitero dove ci troviamo è il luogo della memoria, che lega il passato dei nostri cari al futuro della nostra esistenza, e getta una prospettiva di speranza sul desiderio interiore di eternità. In questa terra benedetta riposa in Cristo, in attesa della risurrezione, anche un mio venerato predecessore: l’arcivescovo Zunnui Casula. Al suo ricordo e alla preghiera per il suo riposo eterno vorrei unire il ricordo e la preghiera per don Zancudi, don Frailis e don Bitto, tre sacerdoti della nostra diocesi che il Signore ha chiamato a sé nel corso di quest’anno.
Permettetemi, ora, qualche breve riflessione sul senso cristiano della morte. Qualche filosofo ha scritto recentemente che la morte non esiste, che il paradiso non c’è, che l’uomo è destinato alla felicità per necessità e non per premio, per cui la vita eterna non sarebbe quella di cui parlano le religioni. Ma la morte angoscia da sempre ogni uomo e ogni donna. Tale angoscia la conoscevano gli egiziani, i babilonesi, gli ebrei, i greci, i romani, e la conoscono gli uomini di oggi. Semmai, ci si potrebbe chiedere su come ci si rapporti alla morte oggi. Il più delle volte si apprende la sua presenza dalla cronaca dei giornali, dai necrologi, dalla radio o dalla televisione. Ogni giorno, magari mentre stiamo a tavola per il pranzo o per la cena, ascoltiamo notizie di morti tragiche e di morti celebri. Se dovessimo rimanere coinvolti emotivamente da tutte le notizie di morte che ascoltiamo, dovremmo impazzire di dolore. Si è creata, di fatto, un’assuefazione alle notizie tragiche e, ormai, si rimane impressionati non più dalla morte in se stessa ma dalla quantità delle morti. Conosciamo, poi, anche il detto “mors tua vita mea”, e sappiamo, di conseguenza, che purtroppo ci sono molte persone che augurano la morte a nemici e parenti, nella speranza di avere un pericolo in meno ed una eredità in più.
In realtà, la morte è l’unico evento di cui si parla senza averne esperienza personale. Si descrive sempre la morte dell’altro. Può sembrare molto strano, ma le esperienze più grandi e significative della nostra vita, e cioè il nascere e il morire, non le possiamo raccontare. Altri, i nostri genitori, ci hanno raccontato la nostra nascita. A nessun altro potremo raccontare l’esperienza della nostra morte. Il nascere e il morire, dunque, rimangono avvolti nel mistero. Le attuali concezioni biologiche ci descrivono il morire con parametri e protocolli scientifici ma non ci possono dire nulla sulla morte. I mezzi di comunicazione parlano ipocritamente della dolce morte. Ma non esiste una dolce morte. La morte è sempre un dramma che molto spesso viene vissuto con rassegnazione stoica o con protesta violenta. A mio parere, solo la Parola di Dio può aiutarci non a capire ma a vivere questo mistero. Ebbene, la Parola di Dio, senza togliere nulla alla drammaticità della morte, soprattutto quando essa si verifica in età precoce o in circostanze di particolare dolore, ci dice che la morte è un dono, e che bisogna aver paura solo della morte senza la salvezza.
È vero che noi credenti consideriamo sempre la vita come un dono di Dio e, di conseguenza, abbiamo imparato a non opporsi ad essa sia con la sua diretta soppressione che con il minacciarla o renderla esistenzialmente precaria. Quando noi riserviamo grande attenzione anche alla morte, lo facciamo sempre in riferimento alla vita, i cui tempi appartengono solo a Dio. L’orientamento etico derivato da questa convinzione, quindi, è sempre rapportato alla vita, da proteggere, prolungare, tutelare, difendere in quanto dono di Dio anche negli ultimi istanti della sua esistenza. La morte, in definitiva, rimane sempre un mistero incomprensibile e, per alcuni, persino inaccettabile. Sarà possibile, allora, concepire come un dono non solo la vita ma anche la morte? La Parola di Dio ci dice che ciò è possibile. Essa ci dice, in modo particolare, che Dio non si riprende il dono della vita che ci ha dato, ma ce ne dona un altro, quello della morte, e trasforma il dono della vita nel dono della morte. Alla persona non viene tolto un bene, ne viene aggiunto un altro, persino più grande, dato che consente l’ingresso nella vita eterna. La liturgia della messa dei defunti ci assicura che la vita non ci viene tolta ma trasformata.
Secondo la Scrittura, la morte è una realtà promanante da Dio, come risulta dalla descrizione del profeta: “la mia tenda è stata divelta e gettata lontano da me, come una tenda di pastori. Come un tessitore hai arrotolato la mia vita, mi recidi dall’ordito. In un giorno e una notte mi conduci alla fine” (Is 38, 11-12). Nella prospettiva dell’Antico Testamento, Dio dona sia la vita sia la morte: “Sono io che do la morte e faccio vivere” (Dt 32, 39); “Il Signore fa morire e fa vivere (1Sam 2, 6). In buona sostanza, Dio viene presentato come datore della vita e al tempo stesso datore della morte. La morte, perciò, sia quando è concepita come una punizione per il peccato commesso, sia quando si presenta nella sua misteriosità e incomprensibilità, non consiste tanto nella semplice cessazione o eliminazione della vita quanto, piuttosto, attivamente, nel ricevere qualcos’altro, cioè nel ricevere un’altra vita, una vita eterna che non conosce tramonto. Nella prospettiva del Nuovo Testamento, San Paolo, nello scrivere alla comunità di Corinto, usa la metafora del seme. In questo modo, egli descrive la morte come un passaggio obbligato e fa capire che è Dio a trasformare la corporeità mortale dell’essere umano in corporeità gloriosa senza nulla togliere ma, piuttosto, donando la speranza di una vita ultraterrena a cui accedere attraverso la morte. Il prima della vita appare totalmente insignificante di fronte al dopo della morte, per cui tale dono divino acquista il senso della sua grandezza proprio in rapporto al dopo a cui introduce. In definitiva: vivere è nascere nel tempo; morire è nascere nell’eternità. Beato chi sa vivere, perché saprà anche morire.
Ma quale speranza può incoraggiare il vivere di chi si sente incombere la morte? Come sostenere chi non regge più il vivere e vorrebbe morire? La speranza non ha ovviamente un solo volto. C’è la speranza cristiana di chi crede nella vita eterna, e c’è la speranza umana di coloro che credono nel destino e dicono: finché c’è vita c’è speranza. Il libro della Sapienza, tuttavia, contesta i ragionamenti di coloro che irridono la speranza cristiana. Essi vanno dicendo: “la nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio, quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso, e dopo saremo come se non fossimo nati”. Di conseguenza, decidono di godersi la vita, erigono la forza a regola della giustizia, opprimono i deboli e tendono insidie al giusto che si oppone alle loro malefatte. La Sapienza contesta risolutamente questa concezione della vita: “la pensano così ma si sbagliano. Non conoscono i segreti di Dio; non sperano salario per la santità né credono alla ricompensa per le anime pure. Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura”. La Scrittura, per bocca del salmista, non promette solo l’immortalità dell’anima ma anche il riscatto della stessa corporeità: “non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo servo veda la corruzione. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra”.
Cari amici, l’apostolo Paolo ci assicura che “la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato”. Facciamo nostra questa certezza. Traduciamola in uno stile di vita ed in una testimonianza di fede, sempre pronti “a dar ragione della speranza” a credenti e non credenti, amici e nemici, vicini e lontani. E’ soltanto guardando più in alto e più oltre che è possibile valutare l’insieme della nostra esistenza e giudicarla alla luce non di criteri puramente terreni, bensì sotto il mistero della misericordia di Dio e della promessa della vita eterna. Nella misura in cui accogliamo la vita come un dono e la morte come un pellegrinaggio verso l’eternità, onoreremo il ricordo di quanti ci hanno preceduto nel segno della fede ed ora, nella comunione dei santi, accompagnano e proteggono il nostro pellegrinaggio terreno. La loro memoria sia benedizione dal cielo, il nostro vivere sia cammino di speranza.