Cimitero cittadino, 2 novembre 2009
L’appuntamento per la commemorazione dei defunti in questo cimitero cittadino è un’occasione privilegiata di meditazione e riflessione sulla morte, ossia sull’evento che sconvolge la vita delle persone e delle famiglie, degli amici e dei parenti, portando via affetti, memorie, progetti.
Paradossalmente, nella società dell’incertezza e del dubbio nella quale noi viviamo, la morte si presenta come l’unica drammatica certezza. La sola verità che non si può contestare, infatti, è che l’uomo è mortale e sa di essere mortale. Questa verità ce la ricorda in modo particolare la Bibbia quando riporta le tremende parole di Dio Creatore all’inizio della storia umana: “con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai” (Gn, 3, 19). La condanna primordiale contenuta in questa verità rivelata, tuttavia, non ha eliminato il desiderio di eternità insito nel cuore di ogni essere vivente. Non è facile, perciò, accettare la realtà della morte. Tutti noi troviamo difficoltà a vivere serenamente la perdita di familiari o amici. Oggi, poi, la condizione mortale dell’uomo viene messa in discussione soprattutto da chi si illude che con la potenza della tecnica si riesca a sconfiggere ogni male, compresa la morte. Ma se è possibile prolungare la vita, non è possibile eliminare la morte. Di conseguenza, chi non ha il dono della fede si rassegna al destino del nulla e alla dispersione delle ceneri, mentre i credenti sanno che il solo vincitore della morte è Gesù Cristo, il quale ha vinto la morte, non evitandola, ma affrontandola e vivendola.
Di fronte alla morte si sono assunti nella storia differenti atteggiamenti. Voltaire diceva che il pensiero della morte serve solo ad avvelenare la vita. Altri erano del parere che la morte è un argomento banale, poiché essa sussisterà quando noi non ci saremo più. Qualcun altro ha consigliato di vivere come se si dovesse morire subito, e di pensare come se non si dovesse morire mai. Heidegger, dal suo canto, affermava che coloro che nascono sono già abbastanza vecchi per morire. Ai nostri giorni, la civiltà dell’apparenza e del consumo tende a nascondere la morte, a vestirla, a truccarla, per renderla estranea o irriconoscibile. Un tempo, il morente non era privato della sua morte. Era lui a presiederla. Dal momento in cui uno giaceva a letto, malato, la sua stanza era visitata da parenti, amici, vicini, appartenenti a confraternite, che accompagnavano con la preghiera e la solidarietà il passaggio del familiare o dell’amico dalla vita alla morte. Oggi, invece, la morte viene camuffata. Il dovere di mentire ha sostituito quello di avvertire il morente. Si muore sempre più frequentemente in un letto d’ospedale e sempre meno a casa propria, dove solo è possibile vivere una liturgia familiare e cristiana della morte. Quando i piccoli orfani non vedono più il loro padre e ne domandano la ragione si risponde che è partito per un lunghissimo viaggio, o che è andato a fare delle vacanze prolungate in un bel giardino pieno di fiori. E così, con questa bugia pietosa, non solo non si ha il coraggio di educare a capire la morte, ma si perde anche l’occasione di educare a capire la vita.
Per vincere la morte, bisogna affrontarla lucidamente, viverla attivamente, come ha fatto Gesù, che è andato incontro lucidamente alla sua morte. Il cristiano è chiamato a vivere e morire come Gesù. Leggiamo nel vangelo di Marco: “Gesù incominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare” (Mc 8, 31). Si tratta, dunque, d’una morte guardata in faccia e accettata lucidamente; anzi molto di più: una morte offerta. Dice Gesù: “Il buon pastore dà la vita per le sue pecore” (Gv 10, 11); “Il Figlio dell’uomo è venuto... per dare la propria vita in riscatto per tutti” (Mc 10, 45). Non per questo, ovviamente, la morte di Gesù è meno drammatica. La prospettiva della morte lo turba profondamente. Dice: “Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!” (Gv 12, 27). Quindi prega con convinzione: “Padre, sia fatta la tua volontà”, e muore di morte atroce.
La morte di Gesù conferisce alla morte dell’uomo un altro significato, un senso nuovo, quello che avrebbe dovuto avere fin dal principio, fin dai primordi della storia umana, e, cioè, il passaggio da una vita precaria ad una vita eterna. La morte e la risurrezione di Gesù trasformano radicalmente il destino dell’uomo. Per i cristiani, infatti, la morte diventa il dies natalis, la seconda nascita, quella che non conoscerà più né tramonto sul cielo né lagrime sulla terra. Nella Gerusalemme celeste, prefigurazione della vita eterna, non ci saranno più stagioni di dolore e tempi di sofferenza. S. Ignazio di Antiochia, davanti alla morte, scriveva: “È vicino il momento della mia nascita. Lasciate che io raggiunga la pura luce; giunto là, sarò veramente un uomo”.
Il modo concreto con cui dobbiamo affrontare la realtà della morte, ossia l’assunzione di un atteggiamento che non elude il dramma e il pianto del distacco ma che lo vince con la speranza della vita eterna ce lo indica la reazione di Gesù davanti alla morte del suo amico Lazzaro. Di fronte al sepolcro dell’amico Lazzaro, Gesù piange e il suo pianto lo rende vicino e solidale con tutti quelli che piangono la morte di un familiare o di una persona cara. Ma dopo il pianto, compie un gesto di onnipotenza divina, che apre la via alla speranza della risurrezione. Richiamando in vita l'amico Lazzaro, Gesù rivela la vittoria sul dolore e sulla morte e si presenta come il Risorto che non muore più, perché la morte non avrà più potere su di lui (Rm 6, 9). In Cristo risorto noi riscopriamo che la morte, pur nella sua drammaticità, è il passaggio alla vita piena, alla vita immortale.
Le parole ispirate di Giobbe che ripongono l’ultima speranza in un intervento di Dio (Gb 19, 23-27) incoraggiano i cristiani di tutti i tempi a rispettare la vita e a rispettare la morte. Come uno non si è dato la vita, così non si può dare neppure la morte. L’inizio e la fine della vita sono nel cuore di Dio, non nell’oscurità del destino, o nel dinamismo dell’evoluzione, o nella scelta autonoma dell’individuo. Non si può disporre di ciò che non si possiede. E la vita non è un possesso. E’ un dono, che va apprezzato non per la sua durata o per la sua qualità, ma per la sua provenienza da Dio. L’inizio della vita e l’ora della morte sono nascosti in Dio e vanno vissuti con gratitudine e responsabilità. Perciò, con le parole della liturgia noi preghiamo: “Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo”.
Abbiamo sentito nella proclamazione del Vangelo che Gesù ha promesso solennemente di non perdere nulla di quanto gli è stato affidato dal Padre e di risuscitarlo nell’ultimo giorno (Gv 6, 39). Questa promessa esprime in termini rivelati quanto la sapienza di Tagore ha espresso nei seguenti termini poetici: “Perché la lampada si spense? La ricoprii col mantello, per ripararla dal vento, ecco perché la lampada si spense. Perché il fiore appassì? Con ansioso amore, me lo strinsi al petto, ecco perché appassì. Perché il ruscello inaridì? Lo sbarrai con una diga, per averlo solo per me, ecco perché il ruscello inaridì. Perché la corda dell’arpa si spezzò? Tentai di trarne una nota, al di là delle sue possibilità, ecco perché la corda si spezzò”.
Cari amici,
la lampada, il fiore, il ruscello, la corda ci danno luce, ci profumano la vita, ci rinfrescano le giornate, ci riempiono di suoni melodiosi, ma non esauriscono il desiderio di eternità nascosto nel nostro cuore. L’unica speranza che non delude è quella riposta nell’amore di Dio, che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm, 5, 5). È questa speranza quella che toglie tristezza alla nostra celebrazione. È questa speranza quella che riduce il distacco delle persone care, che sentono il profumo di Dio e sono solamente passate dall’altra parte: è come se fossero nascoste nella stanza accanto. Sia questa speranza, allora, che ci induce ad aspettare con fede “la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”.