Cimitero cittadino, 2 novembre 2008
“La speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato” (Rm 5, 5). “Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna. Io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6, 40).
“Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno non da straniero” (Gb 19, 26-27). Il messaggio cristiano di speranza è tutto racchiuso in queste Parole rivelate che la Chiesa propone alla nostra meditazione nel giorno in cui commemoriamo i nostri fratelli defunti. Siamo chiamati a fare questa meditazione tutte le volte che il dramma della morte tocca membri della nostra famiglia, nostri amici, nostri conoscenti, persone da noi stimate. Oggi siamo chiamati a fare la stessa meditazione dalla celebrazione liturgica della comunione spirituale con i nostri cari, che ci hanno preceduto nel segno della fede.
Con le letture della celebrazione liturgica, la Chiesa ci propone un messaggio di speranza proprio nel giorno in cui siamo invitati a meditare sulla morte, che viene considerata comunemente la fine della speranza. Infatti, il proverbio popolare afferma che “finché c’è vita c’è speranza”. La Chiesa, invece, ci dice che c’è speranza anche dopo la fine della vita terrena, anche dopo la morte. E’ stato scritto da Epicuro che “contro tutte le altre cose è possibile procurarsi una sicurezza, ma a causa della morte, noi uomini abitiamo una città senza mura”. Ciò equivale a dire che il pensiero della morte rende precaria e insicura la vita umana. L’insicurezza, poi, produce la paura, e la paura schiavizza. Gli uomini, ricorda la Lettera agli Ebrei, sono schiavi tutta la vita a causa della paura della morte (Eb 2, 15). E noi, sentendoci città senza mura, cerchiamo di costruirci protezioni e difese che, mentre ci vogliono preservare dalla morte, in realtà, ci allontanano dalla vita.
Ora, la fede della Chiesa respinge l’insicurezza e la paura creando speranza. Giorni fa, un annuncio del blog del quotidiano londinese The Guardian, in meno di 24 ore, ha raccolto donazioni per quasi 50 mila sterline (60 mila euro) per finanziare dei cartelloni a favore del secolarismo sugli autobus di Londra. Con quei soldi è stata fatta riprodurre sulla fiancata di trenta bus, per quattro settimane, nelle strade della capitale, la seguente ironica scritta: ”Probabilmente Dio non esiste. Dunque, smettete di preoccuparvi dell’aldilà, e godetevi la vita sulla terra”. Lo scopo dichiarato di questa stravagante campagna pubblicitaria è quello di fornire un contro-messaggio rassicurante a chi si sente minacciato dai predicatori, che ricordano agli uomini cosa li aspetta dopo la morte: l’inferno e la dannazione eterna. Ma sappiamo che la fede cristiana non predica la preoccupazione o il divieto di godere i beni della vita. Al contrario, la nostra fede ci libera dai timori, mettendo la vita nella prospettiva giusta. Recentemente, un senatore americano del Nebraska, Ernie Chambers, in carica da 38 anni, ha voluto portare in tribunale nientemeno che Nostro Signore, reo di aver diffuso paura e terrore e di permettere catastrofi e sciagure. A suo dire, Dio ha diffuso paura e terrore in tutto il mondo, e, perciò, merita di essere sottoposto a giudizio non nell’alto dei cieli ma in una corte del Nebraska. Poco importa se il procedimento giudiziario non avrà alcun seguito, per il fatto che un giudice del Nebraska lo ha respinto, in quanto Dio non ha alcun indirizzo al quale poter notificare l’avvio della causa. L’illuminato senatore 71enne sostiene che Dio e tutti i suoi seguaci, sarebbero responsabili “delle continue minacce terroristiche, con conseguenti danni per milioni e milioni di persone in tutto il mondo”. Non solo, su Dio ricade anche la terribile responsabilità di terremoti, uragani, guerre e nascite di bimbi con malformazioni. Infine: Dio è accusato di aver distribuito, in forma scritta, documenti che servono a trasmettere paura, terrore e incertezza, al fine di “ottenere obbedienza da parte degli uomini”.
Cari amici,
non meraviglia più di tanto il fatto che si facciano dei processi a Dio. In ultima analisi, la letteratura di tutti i tempi ha dedicato pagine illustri per descrivere la drammaticità dell’esistenza umana, e chiamare in causa gli dei per il dramma del male nel mondo. Nella stessa Bibbia abbiamo il libro di Giobbe, che propone una riflessione religiosa sul tema della giustizia di Dio. Quest’ultima sembra essere messa in discussione dalla sofferenza di uomini che non hanno offeso la divinità. La risposta che l’autore del libro suggerisce è che anche la sofferenza del giusto ha un senso nel piano di Dio, che rimane però incomprensibile alla mente dell’uomo. La sofferenza non è un castigo per colpe personali specifiche, ma è in qualche modo legata alla condizione umana e, se affrontata con fede in Dio, può portare a un premio molto più grande del dolore patito. Il libro termina con il protagonista che si porta la mano sulla bocca ed ammette che davanti al mistero di Dio la sola risposta possibile è il silenzio. Un silenzio, però, che non significa fatalismo e abbandono al destino cieco degli dei, ma adesione alla volontà di Dio, nella convinzione che tutto quello che si possiede è un dono divino, da accogliere con gratitudine e da gestite con responsabilità.
Il mistero del male nel mondo non lo si risolve con un processo impossibile a Dio, o con la promessa di garantire una vita senza dolore. Ci aiutano a viverlo in spirito di fede, invece, quelle persone che accettano la sofferenza dalle mani di Dio e che, con testimonianza splendida, la considerano un’esperienza di grazia. Certamente, la ragione umana non arriva a giustificare l’esistenza del male, ma ciò che non giustifica la ragione lo coglie la sapienza della fede. Di fatto, possiamo trovare miracoli di fede non sulle colline delle presunte apparizioni della Madonna ma sui letti degli ospedali, dove persone afflitte da malattie incurabili trovano il coraggio di benedire Dio. Sono questi i martiri dei nostri tempi, capaci di trasformare il letto in santuario, e di lodare il Dio della vita alla vigilia della morte. Di fronte a questa preghiera ogni forma di protesta diventa meschina, ogni scelta di fede è degna di ammirazione.
Noi, quando parliamo della morte, parliamo sempre della morte degli altri. Nessuno, infatti, può raccontare la sua morte, così come nessuno può raccontare la sua nascita. L’inizio e la fine dell’esistenza umana sono avvolti nel mistero. Anche il senso della vita e della morte, in qualche modo, è sottratto all’esperienza umana, e viene rivelato solo dalla Parola di Dio. La ragione filosofica afferma che l’uomo è “un essere per la morte”. La sapienza della fede ci insegna che l’uomo è un essere per la vita eterna. L’esperienza umana si ferma sulla soglia del sensibile, di ciò che vediamo e tocchiamo. La Parola di Dio supera le barriere della nostra esperienza, e ci ricorda che le vie di Dio non sono le vie degli uomini. Che parole umane possiamo dire ad una madre che abbraccia il proprio figlio morto in un incidente del sabato sera? Possiamo trovare solo parole di conforto, che non seguono la logica della ragione umana. La morte, che ci spia tra le fessure delle cose, non ha una logica. Neppure l’amore ha una logica. Le due forze maggiori della vita umana sono senza logica; hanno significati trascendenti. Il significato della vita e della morte lo capiremo solo quando saremo sulla cima dell’eternità. “Quando sono arrivato lassù, ha scritto S. Ignazio di Antiochia, sarò quello che sono”. E l’apostolo Paolo proclama: “la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove aspettiamo il Signore nostro Gesù Cristo, che trasfigurerà il nostro misero corpo, conformandolo al suo corpo glorioso” (Fil 3, 20-21).
Cari fratelli e sorelle,
le parole di Gesù nel vangelo che abbiamo ascoltato non invitano ad atteggiamenti difensivi e di paura, ma alla fede, ad affidarsi al Signore, a credere in lui. “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna” (Gv 6, 40), e, ancora, “Chi crede in me, fosse anche morto, vivrà” (Gv 11, 25) “Chi crede ha la vita eterna” (Gv 6, 47). Rinnoviamo, allora, ancora una volta, la nostra fede nel Cristo risorto, annunciando la sua morte, proclamando la sua risurrezione, nell’attesa della sua venuta.