Cattedrale di Oristano, 28 gennaio 2007
Penso che, a conclusione del nostro convegno ecclesiale diocesano, il principale sentimento che anima i nostri cuori sia quello di una grande lode al Signore, per la grazia e la benedizione che abbiamo ricevuto in questi due giorni di condivisione degli ideali e della progettualità pastorale.
In qualche modo, la nostra Chiesa Cattedrale, è diventata simbolicamente l’epicentro di tutta la comunità diocesana, si è costituita come il tempio che celebra il mistero della fede, il punto di incontro di speranze condivise ed impegni promessi, la stazione di partenza di un cammino di rinnovata testimonianza evangelica. L’Eucaristia che celebriamo vuole essere allo stesso tempo memoriale di gratitudine per i doni ricevuti, e pegno di viaggio per la missione da compiere.
Che cosa dice oggi lo Spirito alla Chiesa arborense, qui convocata dal proprio pastore e riunita intorno all’altare? Abbiamo ascoltato la solenne affermazione di Gesù nella sinagoga di Nazareth: “oggi si è adempiuta questa Scrittura nei vostri orecchi”. Quale adempimento della Scrittura, allora, si è compiuto nella nostra comunità credente? Che cosa dice la Parola di Dio all’oggi della Chiesa diocesana, all’oggi della nostra coscienza di battezzati nel nome di Dio Uno e Trino, all’oggi del nostro desiderio di volare e della nostra paura di cadere? Lo Spirito ci invita ad una testimonianza profetica della nostra fede cristiana, per dare risposte di vita e di speranza alle domande vere della nostra gente e del popolo di Dio.
La proclamazione della Parola ci ha fatto constatare come la promessa di rendere Geremia “come una fortezza, come un muro di bronzo contro tutto il paese” sia diventata attuale nella vicenda di Gesù nella sinagoga di Nazareth, quando l’ira dei suoi connazionali, suscitata dalle sue affermazioni accusatorie, si traduce nella cacciata dalla città e nella minaccia di morte. Gesù condivide, così, il destino dei profeti antichi. Elia ed Eliseo, infatti, sono figure emblematiche del ministero profetico. Essi, a loro tempo, sono stati inviati a Israele, ma dovettero rivolgersi agli stranieri, e cioè ad una vedova di Sarepta e ad un lebbroso della Siria. La legge della storia della salvezza ci dice, quindi, che il successo visibile non appartiene al carisma profetico. Gesù non è accolto dai suoi connazionali come un profeta; egli è solo il figlio di Giuseppe, cioè di un semplice falegname, di un artigiano poco famoso. D’altra parte, il perbenismo religioso e politico non ama i profeti, né ha la capacità o la volontà di riconoscerli. Questa realtà l’hanno denunciata il profeta Isaia, cui il popolo ribelle chiedeva “Non fateci profezie sincere; diteci cose piacevoli; profetateci illusioni” (Is 30, 10); il profeta Amos, che si è sentito dire dal sacerdote Amasia: “vattene via, visionario, al paese di Giuda: là mangia il tuo pane e là fa le tue profezie” (Am 7, 12.13). Ma il profeta autentico non offre illusioni, contesta le aspettative degli apparati, rimane fedele alla missione affidatagli da Dio. Tutta la tradizione giudaica ha conosciuto il legame tra profeta e martirio, e, spesso, gli ha quasi attribuito i contorni di una necessità storica. La tradizione cristiana, dal suo canto, ha ripreso più volte questo filo conduttore del rifiuto dei profeti, che ha raggiunto il suo apice nell’uccisione di Gesù, come ci insegna la tragica parabola dei vignaioli omicidi.
Ora, noi sappiamo che il profeta, al termine della sua missione, potrà anche essere tolto di mezzo, ma non sarà cancellato il suo messaggio. Il messaggio, infatti, non si identifica con la persona o il destino del profeta. Il messaggio supera le contingenze storiche delle persone e dei fatti, ed anima decisioni e progetti d’ogni tempo e d’ogni valenza. Oggi, noi siamo chiamati a fare nostro il messaggio della Parola di Dio, e a trasformarlo in uno stile di vita, in un dovere di testimonianza. Come al profeta Geremia ci viene ordinato di “cingere i lombi”, per metterci in viaggio e testimoniare con la vita le ragioni della speranza cristiana. All’inizio del viaggio non è possibile prevedere eventuali fallimenti, dubbi e incertezze, delusioni e paure. Si può solo confidare nell’aiuto di Dio. A questo riguardo, il vangelo odierno ci presenta il modello di Gesù che, “passando in mezzo a loro, se ne andava”. Quel camminare di Gesù che sfida coloro che rifiutano il suo messaggio e lo minacciano di morte esprime molto bene la tranquillità di Dio contro l’agitazione dei potenti di turno o la critica degli scontenti di sempre. Gesù cammina verso il compimento della sua missione, in sofferta ma totale fedeltà alla volontà del Padre. Noi cristiani, definiti dagli Atti degli Apostoli, “i seguaci della via” (At 9, 2), vogliamo metterci in viaggio con Gesù, nella piena fiducia che Dio stesso sarà la luce dei nostri passi. Secondo il racconto della vocazione del profeta Geremia, noi siamo “conosciuti”, “consacrati”, “inviati”. Siamo conosciuti, perché nessun dolore umano è lontano dal cuore di Dio, nessuna condizione umana è nascosta ai suoi occhi. Siamo consacrati, perché chiamati a dedicare tutto noi stessi al servizio della Parola di Dio, nella convinzione che qualsiasi altra parola umana ci dia orientamenti precari, mentre solo il Figlio di Dio ha parole di vita eterna. Siamo inviati, perché nessuno vive per se stesso o muore per se stesso, bensì ognuno è chiamato a vivere con gli altri, a morire per gli altri.
Il seguire Gesù, però, sin dall’inizio della sua vita pubblica e fino al momento della sua crocifissione, comporta sempre una divisione tra chi lo accoglie e chi lo rifiuta, chi lo ascolta e chi lo bestemmia. Gesù obbliga a fare una scelta. Il suo incontro è decisivo per i santi e per i peccatori. Incontrare Gesù significa essere condotti a fare verità nella propria vita, mettersi alla scuola della Parola, servirla con coerenza e coraggio, anche quando essa crea un’appartenenza “altra”. Fu così ai tempi della Lettera a Diogneto, cioè del cristianesimo nascente, e sarà così anche ai tempi della morte di Dio, cioè della società post-cristiana. Allora come oggi, noi cristiani, stranieri in patria e cittadini in terra straniera, siamo chiamati a manifestare “il meraviglioso e a dire il vero incredibile carattere della nostra cittadinanza spirituale”.
Ma qual è la profezia della nostra cittadinanza spirituale di cui la nostra diocesi ha bisogno? Ce lo dice San Paolo: “queste, dunque, le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità” (I Cor 13, 13). La carità non è una parola o, per lo meno, deve cessare di essere una parola, e deve diventare una virtù. La nostra diocesi ha bisogno della virtù della carità, che si traduce in comunione, riconciliazione, perdono. Il nostro annuncio sarà vuoto, la nostra testimonianza non vera, il nostro impegno vano, se uscendo da questa Chiesa cattedrale continuiamo a nutrire rancore, guardarci con sospetto, rifiutare la collaborazione. È proprio un’utopia dell’arcivescovo sperare che ci si voglia bene, che ci si perdoni, che ci si decida a camminare insieme? È proprio un azzardo pastorale pregare perché il Signore ci converta il cuore e ci purifichi i sentimenti? Le divisioni non sono certo una novità della chiesa arborense, se già nella comunità di Corinto avevano provocato rivalità ed invidie. Ma esse vanno combattute senza rassegnazione e senza compromessi.
Cari amici,
gli occhi verso i monti, perché il nostro aiuto viene dal Signore che ha fatto cielo e terra (Sal 120, 1-2). Superiamo il fatalismo e la rassegnazione, creiamo futuro, impariamo a pensare in grande, a guardare sopra il sole. Il nostro sperare, che, secondo l’insegnamento di Benedetto XVI, si deve tradurre in pazienza e umiltà (Deus caritas est, 39), sia il riconoscere che il cielo e la terra si toccano, e che il cielo è credibile solo quando illumina la terra, non quando la nasconde. Non possiamo proporre la speranza nel futuro a chi non ha presente, prospettare la vita eterna a chi è in lotta per la vita terrena, indicare il banchetto celeste a chi ha lo stomaco vuoto. Le nostre parole e i nostri gesti siano dei momenti di grazia, che aiutano ad amare il cielo senza dimenticare la terra. Preghiamo, perché Colei che in mezzo alla prima comunità cristiana attese, invocò e ricevette lo Spirito Santo nel giorno della Pentecoste, interceda presso suo Figlio affinché la nostra comunità ecclesiale si apra alla novità dello Spirito e si incammini su sentieri di rinnovata testimonianza evangelica