Funerale di Mons. Giovanni Maria Cossu

Cattedrale di Oristano, 17 dicembre 2015

A pochi giorni dalla celebrazione del Natale del Signore Gesù e all’inizio dell’anno santo della misericordia, ci ritroviamo in questa chiesa cattedrale per accompagnare con la preghiera un altro dei nostri sacerdoti che ritorna alla casa del Padre. Mons. Giovanni Maria Cossu ci ha lasciato appena compiuti 91 anni di vita e 68 di ministero sacerdotale, iniziato, questo, il 5

agosto del 1947, nella cattedrale di Nuoro, con l’ordinazione conferitagli da Mons. Giuseppe Melas, poiché la Diocesi di Oristano era sede vacante per la morte del vescovo Mons. Giuseppe Cogoni, avvenuta nel giugno di quel medesimo anno. Il suo ministero sacerdotale si è svolto per una breve parentesi come viceparroco a Marrubiu e poi per la quasi totalità della sua esistenza tra il Seminario Diocesano, la direzione del settimanale “Vita Nostra” e l’assistenza spirituale delle Figlie di San Giuseppe di Genoni. Oggi non si può parlare di Mons. Cossu senza fare riferimento a P. Felice Prinetti, Fondatore della Congregazione delle Figlie di San Giuseppe di Genoni, e, per converso, non si può parlare di P. Prinetti e della Congregazione da Lui fondata senza fare riferimento a Mons. Cossu. Io personalmente ho in comune con lui il padre del mio sacerdozio, il Vescovo di Nuoro Mons. Giuseppe Melas, e una data di formazione accademica, dovuta al fatto che nello stesso giorno e nella stessa aula in cui egli ha difeso la sua tesi dottorale nel Seminario Regionale di Cuglieri io difesi una dissertazione di filosofia sul diritto naturale nel pensiero del gesuita Taparelli D’Azeglio. Egli amava ricordarmi questa coincidenza tutte le volte che ci incontravamo.

Mons. Cossu ha affidato il suo spirito nelle mani del Padre Eterno martedì sera, 15 dicembre, nell’ora in cui io celebravo la messa nella vicina Chiesa del Carmine e l’assemblea dei fedeli aveva appena cantato: “annunciamo la tua morte o Signore, proclamiamo la tua risurrezione nell’attesa della tua venuta”. Dopo la ripetuta invocazione “Veni Domine”, egli aveva cominciato l’agonia nello stesso momento dell’apertura della porta santa dell’anno della misericordia. In profonda comunione di spirito ecclesiale, anch’egli è passato attraverso la porta santa, purificato da molti anni di sofferenza, che ha vissuto con esemplare rassegnazione cristiana. Posso ben dire che egli era pronto all’incontro con il Signore, “con la cintura ai fianchi e la lucerna accesa”. Il giorno prima della morte, accompagnato dalle suore, aveva provato a cantare il Magnificat per ringraziare la Madonna e il Te Deum per ringraziare il Signore della vita e della morte. In qualche modo, egli, dotato di sapienza liturgica, ha concluso la sua esistenza terrena con le note finali d’un canto di lode alla Madonna e al Signore, in sintonia con S. Agostino, per il quale “vivere è cercare Dio, morire è incontrarlo”. Questa sera, alla Comunione, per sua espressa volontà testamentaria di sacerdote adoratore, canteremo Lauda Sion Salvatorem, a lode e gloria di Gesù Eucaristia. Né tribolazione, né angoscia, né persecuzione, né fame, né nudità, né il pericolo, né la spada lo hanno separato dalla comunione con il Signore.

Il richiamo alla vigilanza che viene evocato con la pagina del vangelo che abbiamo ascoltato ci ricorda che la nostra destinazione verso la città eterna, secondo il disegno divino, impedisce che la vita umana sia un vagabondare senza meta e senza destino, e fa sì che, invece, la stessa vita sia un pellegrinaggio verso un traguardo fissato in anticipo da Dio e raggiunto nel tempo dall'uomo. Il cristiano non è un nomade, ma un pellegrino. Non è angosciato dall'incertezza del futuro, ma è confortato dalla promessa divina, che cambia la storia profana in storia della salvezza. La vera città umana è quella costruita da Dio stesso, la vera patria umana è quella preparata da Dio, cioè quella celeste. Non habemus hic manentem civitatem sed futuram inquirimus, non abbiamo una dimora fissa sulla terra, ma ne cerchiamo una futura (Eb 13, 14).

“Cristo, ribadisce Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi, è venuto a rivelarci che la nostra vita non finisce nel vuoto, ma l’uomo è destinato all’incontro con Dio, è stato creato “per essere riempito da Lui” (n. 33). Per questo in Cristo siamo stati redenti e salvati. Questa certezza, che nasce dalla fede nella Parola di Dio, genera nel nostro cuore di credenti una “grande speranza”, capace di dare senso a tutta la vita e di sostenerla anche nei momenti più difficili e faticosi. Infatti, è molto diverso vivere e agire ritenendo che tutto finisce con la morte, vittime d’un destino impersonale, oppure con la certezza che non scompariamo nell’orizzonte del nulla, ma saremo per sempre cittadini d’un mondo redento e trasfigurato. Pertanto, l’annuncio cristiano della salvezza non è solo una “buona notizia”, un’informazione consolatoria, ma ciò che dà senso e speranza sia a chi entra nella città del cielo, sia a chi rimane nella città della terra.

La ragione ultima della nostra speranza poggia sulla convinzione che il vero futuro dell’uomo è proiettato sulla sponda dell’eternità e che la vera casa comune è quella costruita da Dio stesso, cioè quella celeste. Lo affermava il Padre della Chiesa S. Ignazio di Antiochia: "Ecco, è vicino il momento in cui io sarò partorito. Abbiate compassione di me, fratelli. Non impedite che io nasca alla vita. Lasciate che io raggiunga la pura luce. Giunto là, io sarò veramente uomo". Lo ribadisce il filosofo della fine dell’epoca moderna Romano Guardini, che asserisce che la nostra identità di uomini pellegrini è fissata dall'eternità, la quale consacra i nostri contorni personali: "Noi non abbiamo ancora il nostro vero nome; lo prova il fatto che il nostro nome attuale, quello civile, è portato anche da altri. Chi io sia realmente non lo so ancora; questo mistero per ora è incompreso e senza nome. Un giorno però riceverà il suo nome, quello che indica me e me soltanto. Sarà il nome del figlio o della figlia di Dio". L’ha definito, infine, il Concilio Vaticano II nel descrivere l’indole escatologica della Chiesa peregrinante: “La Chiesa, alla quale tutti siamo chiamati in Cristo Gesù e nella quale per mezzo della grazia di Dio acquistiamo la santità, non avrà il suo compimento se non nella gloria celeste, quando verrà il tempo in cui tutte le cose saranno rinnovate (cfr. Ap 3, 21), e col genere umano anche tutto l'universo, il quale è intimamente congiunto con l'uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine, troverà nel Cristo la sua definitiva perfezione (cfr. Ef 1, 10; Col 1, 20)” (LG, 48).

Cari fratelli e sorelle,

come sempre, in queste circostanze di lutto, dobbiamo fare ricorso alla fede che ci assicura che “la vita non è tolta ma trasformata e che se ci rattrista la certezza di dover morire ci consola la promessa dell'immortalità futura” . La forza della fede, tuttavia, non toglie la durezza del dolore per la perdita di un uomo di Dio, che non ha mai giocato a fare il prete, ma è vissuto sempre in fedeltà alla sua vocazione di ministro della misericordia di Dio. La sua protezione dal cielo si unisce a quella di tanti confratelli sacerdoti che vegliano sulla nostra Chiesa arborense, e pregano perché essa sia sempre una famiglia che accoglie, che conforta, che perdona, che riconosce la dignità di figlio di Dio a ogni uomo e ogni donna di buona volontà. Il suo ricordo sia benedizione!