Cattedrale di Oristano, 20 marzo 2008
Cari amici, permettetemi che in questa liturgia crismale mi rivolga soprattutto ai confratelli sacerdoti, perché la ricorrenza del giovedì santo è sempre un’occasione propizia di riflessione sulla identità dei ministri di Cristo, chiamati a vivere la propria vocazione di uomini, discepoli, presbiteri.
Come ben sapete, cari confratelli, sono diverse e molteplici le caratteristiche con le quali viene definita la nostra missione e vocazione: maestro della Parola, ministro dei sacramenti, guida della comunità. Queste caratteristiche hanno bisogno di essere meditate ed assimilate, in funzione di una più efficace evangelizzazione cui è chiamata tutta la Chiesa ed in modo particolare i sacerdoti. Noi, infatti, siamo stati scelti, consacrati ed inviati per fare emergere la contemporaneità di Cristo, e per essere suoi autentici rappresentanti e messaggeri. Nell’odierna liturgia della Parola, abbiamo ascoltato il profeta Isaia che annuncia: “lo Spirito del Signore è su di me”. Abbiamo ascoltato anche Gesù, che, nella sinagoga di Nazareth, spiega che quell’annuncio è diventato realtà nella sua persona e nella sua missione. Lo stesso annuncio, poi, lo cantiamo spesso nella celebrazione del sacramento della cresima e nelle liturgie di consacrazione ai ministeri sacri, ed in modo particolare al ministero sacerdotale. Questa mattina vorrei fermarmi a riflettere con voi sul senso profondo di questo annuncio profetico per la nostra vita sacerdotale. Ci possiamo chiedere, infatti, con interiore lealtà, se siamo abilitati a ripetere con Gesù: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi”, e se possiamo verificare in noi l’adempimento della profezia di Isaia: “Coloro che li vedranno ne avranno stima, perché essi sono la stirpe che il Signore ha benedetto”.
La ragione della stima dei nostri fedeli, in base a questi testi, non è il nostro impegno sociale, la nostra preparazione culturale, la nostra capacità organizzativa, ma l’essere benedetti dal Signore, che ci abilita ad essere a nostra volta benedizione. Mai responsabilità è stata più grande nella storia degli uomini di quella di essere chiamati a rendere presente la grazia e la misericordia di Cristo. Non dimentichiamoci che non pochi contemporanei si fanno un'idea di Cristo e della Chiesa prima di tutto attraverso il nostro ministero. Diventa, quindi, ancora più urgente la nostra testimonianza genuinamente evangelica, quale "immagine viva e trasparente di Cristo sacerdote". Siamo chiamati a trasmettere questa immagine viva del Cristo componendo insieme la predicazione della parola, il ministero sacramentale, la guida dei fedeli. Non ha molto senso una predicazione che non formi continuamente i fedeli e non sfoci nella pratica sacramentale, così come non ha molto senso una preparazione ai sacramenti separata dalla piena accettazione della fede e dei principi morali, e in cui manchi la conversione sincera del cuore. Se da un punto di vista pastorale il primo posto nell'ordine dell'azione spetta, logicamente, alla funzione della predicazione, nell'ordine dell'intenzione e finalità, il primo posto deve essere assegnato alla celebrazione dei sacramenti, ed in particolare della penitenza e dell'eucaristia.
Il Concilio ci ricorda che i "presbiteri, nella loro qualità di cooperatori dei vescovi, hanno anzitutto il dovere di annunciare a tutti il vangelo di Dio" (PO, 4), ed afferma che la predicazione rimane configurata come un ministero che sgorga dal sacramento dell'Ordine e che si svolge per autorità di Cristo. Il ministero della predicazione ha un particolare carattere di servizio che richiede che il ministro diventi veramente servo della parola e non il suo padrone. Questo carattere di servizio richiede inoltre la dedizione personale del ministro alla Parola predicata, una dedizione rivolta in ultima istanza a Dio stesso, perché egli deve essere il primo "credente nella Parola", in piena consapevolezza che le parole del suo ministero non sono "sue" ma di Colui che lo ha mandato.
La nostra predicazione, che ha alla sua base l'orazione personale, dovrà innanzitutto risvegliare il senso vocazionale dell'esistenza del cristiano. In secondo luogo, senza cadere in un vuoto intellettualismo, essa è chiamata a svolgere una vera carità intellettuale attraverso la permanente e paziente catechesi sulle verità fondamentali della fede e della morale. L'istruzione cristiana è una primaria opera di misericordia spirituale, poiché la salvezza non si realizza senza la fede in Cristo. Questa predicazione si realizza con la massima perfezione umana possibile, che io vedrei realizzata in queste tre dimensioni che vi presento brevemente.
Il sacerdote è un apostolo dell'essere. In un mondo che privilegia la cultura dell'avere, del fare, dell'apparire, è necessario vincere la tentazione di fare il prete e testimoniare invece la gioia di essere prete. Essere prete vuol dire essere se stessi. Ed essere se stessi richiede coraggio, costanza, coerenza. Gli operai della vigna sono chiamati ad essere operai e non a dimostrare quanto lavoro essi possono fare. Essere se stessi significa vivere la propria vocazione, riscoprirla ogni giorno, apprezzarla ogni giorno, ringraziare per essa ogni giorno. Non basta una vita per capire la grandezza del dono ricevuto. Questo dono lo si apprezza non nella dispersione del fare ma nel silenzio della contemplazione. Una diffusa mentalità relativistica ed egualitaria può portare ad una confusione di ruoli. Il sacerdote non è il fedele laico, il fedele laico non è il sacerdote. Ma tutti e due sono a servizio del Regno, nella fedeltà alla propria vocazione. Il sacerdote è chiamato a svolgere un apostolato dell'essere.
Il sacerdote è un custode del mistero. In un mondo di consumismo e di materialismo cresce sempre di più la domanda di trascendenza. Per questo, il sacerdote non dovrebbe accettare il battimani per le iniziative sociali in cui egli fa un'opera di supplenza. L'esistenza umana felice, realizzata, piena, non è quella priva di bisogni umani, bensì quella ricca di bisogni divini, aperta al desiderio infinito di Dio. L'uomo è nato per guardare in alto e non solo per guardarsi attorno. Il bisogno di Dio è un bisogno autentico. Il sacerdote si pone a servizio delle inquietudini interiori, ossia a servizio della ricerca di Dio. Accompagna la ricerca di Dio incoraggiando la fedeltà alla sua Parola. Vive della parola di Dio, che costituisce la vera dimensione sacra della vita. In tutto ciò, ha un esempio in Maria di Nazareth, che conservava le parole di Gesù nel suo cuore. Viveva di quelle parole e con esse adorava nel silenzio e nella discrezione il mistero di suo Figlio, aiutava i discepoli a discernere i bisogni dell'uomo e i tempi di Dio.
Il sacerdote è un educatore della coscienza. Se la coscienza è il sacrario dell'uomo, il sacerdote lo rispetta e non lo profana. La Chiesa si ferma davanti al sacrario della coscienza, e il sacerdote aiuta i fedeli laici a iscrivere con la coscienza la legge del vangelo nelle realtà della storia. Il sacerdote non dovrebbe pretendere di conoscere la volontà di Dio per gli altri, ma si adopera nell’accompagnare gli altri a scoprire la volontà di Dio. Bisogna avere il coraggio di non dare risposte ma di coltivare domande, di educare ad avere idee proprie e non risposte alle idee degli altri, di proporre idee che "costano per quello che valgono e non per quello che rendono".
Termino, ripetendo le parole della lettera pastorale, con le quali esprimo l’augurio e la speranza che vi mettiate in ascolto della Parola di Dio, dietro l’esempio di Maria, icona della Parola. Secondo S. Agostino, la Madre di Gesù concepì il Cristo prima nella sua mente che nel suo grembo. Per Lei, contò di più essere stata discepola di Cristo che essere stata sua madre. Possa, allora, Maria, la prima e più perfetta discepola di Cristo, aiutarvi tutti a diventare seguaci del Signore Risorto, conservando memoria delle sue parole e trasformandole in modelli di testimonianza.