Parrocchia di Meana Sardo, 29 giugno 201
Siate benvenuti a questa celebrazione eucaristica nella quale, con l’imposizione delle mani, consacro la vita di don Emanuele Lecca al servizio della Chiesa e del prossimo. Saluto con viva cordialità i confratelli concelebranti, i genitori, familiari, parenti ed amici di don Emanuele, i Superiori e i seminaristi del Seminario Regionale e Diocesano,
il signor Sindaco e il Comandante dei Carabinieri, e tutti voi, fratelli e sorelle in Cristo.
La solennità odierna fa memoria di Pietro e Paolo, due personalità differenti, due itinerari di vita e di predicazione distanti, un’unica passione per Cristo e un unico martirio nella città del potere imperiale. Le letture della memoria dei due apostoli ci offrono diversi spunti di riflessione. Questa sera vorrei riflettere con voi sul comportamento della Chiesa primitiva di fronte all’arresto di S. Pietro, sulla domanda di Gesù ai suoi discepoli circa la sua identità, sulla conservazione della fede da parte di S. Paolo.
Per quanto riguarda la reazione di fronte all’arresto di S. Pietro, gli Atti degli Apostoli ci descrivono la comunità che prega incessantemente per il proprio pastore. Per un verso, questo fatto rivela con quale mezzo la comunità cristiana affrontava la lotta contro i potenti del mondo. Per un altro verso, l’irruzione dell’angelo nel carcere per liberare S. Pietro mette in evidenza che la vita della Chiesa è sempre sotto la protezione divina. Da subito, infatti, si avvera la profezia di Gesù, secondo la quale le porte degli inferi non prevarranno contro la Chiesa. Le porte degli inferi moderne, oggi come oggi, sono le centrali laiciste del pensiero unico, la quantità dei luoghi comuni, le ideologie anticlericali che gettano discredito sulla vita della Chiesa. Oggi come allora la Chiesa viene attaccata in diversi modi e con diversi intenti. Si scrivono molti libri contro di essa. La si accusa di ingerenza nel potere secolare, di favorire le guerre, di rovinare i bambini. Ma la promessa di Gesù che “non praevalebunt” ne preserva la durata nel tempo e la natura di mediatrice di salvezza.
Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che la Chiesa siamo noi e che “noi siamo la Chiesa”. Quando pensiamo alla Chiesa spesso la identifichiamo con la gerarchia, i preti, le suore. Eppure, Chiesa siamo tutti noi, popolo di Dio, chiamato a testimoniare la novità e originalità della fede cristiana. La Chiesa sono le nostre parrocchie, che nei singoli paesi sono come la fontana del villaggio alla quale attingono tutti, senza discriminazione di razza o di cultura. Sono gli oratori dove si sono formati tanti politici e tanti professionisti che hanno dato il meglio di sé nell’esercizio delle diverse professioni. La Chiesa sono anche le Caritas diocesane e parrocchiali che gestiscono le emergenze della povera gente, per lo più non conosciute dall’opinione pubblica. La Chiesa sono anche le suore di Madre Teresa, che si prendono cura degli emarginati rifiutati dalla società civile, e non assistiti dalle istituzioni dello Stato. Quanti eroismi segreti dei nostri fedeli che non si conoscono, perché gli alberi che crescono non fanno rumore mentre l’albero che cade fa molto rumore! Quanti esempi di altruismo e di generosità che non hanno né testimoni né sponsor, ma che alleviano dolori, curano ferite, creano speranza, accompagnano solitudini!
La domanda di Gesù ai discepoli circa la sua identità, riportata dall’evangelista Matteo, corrisponde ad un invito a compiere un esame di coscienza della nostra fede e della nostra spiritualità. Qual’ è la nostra fede in Gesù come il Cristo, Figlio del Dio vivente? Per l’islàm, Gesù è solo un profeta, un messaggero di Dio. Egli è solo un uomo che ha portato un messaggio, ma non è Dio. La professione della divinità di Gesù è una bestemmia. Anche per gli ebrei, Gesù è solo un profeta che non ebbe alcunché da fare con il cristianesimo o la Chiesa. Sarebbero stati i seguaci di Gesù, di origine ellenistica, coloro che lo divinizzarono. Se, però, Gesù viene considerato solo come un profeta, o come un maestro di morale, non potrà essere accettato come l'unico maestro di morale, perché la morale è un patrimonio comune dell'umanità ed i percorsi di maturazione etica sono tanti e differenziati. Se Gesù viene considerato, invece, come salvatore, come tale, è unico, e, perciò, può essere accettato, in quanto salvatore assoluto, come colui che non solo garantisce la salvezza parziale nella storia, ma soprattutto la salvezza escatologica nella vita eterna. La morale dei potenti, dei superuomini, non può accogliere la morale di un crocifisso. Ma il bisogno profondo di salvezza assoluta, radicato nel cuore di ogni uomo, può accogliere un salvatore assoluto, che liberi in maniera definitiva da ogni forma di male e di sofferenza. Gesù ci ha portato Dio, ossia la salvezza dal male e dalla morte. Non si può scambiare questo Dio con un programma di promozione umana.
S. Paolo, scrivendo a Timoteo al termine della sua esistenza, guarda indietro agli anni della sua predicazione, dei suoi viaggi, del suo impegno missionario, e afferma di aver conservato la fede. In altri termini, egli afferma di essere rimasto un credente nonostante le avversità della vita, e, indirettamente, fa vedere che la perseveranza nella fede non è mai scontata per nessuno. Lo stesso Gesù, in un momento critico del proprio cammino esistenziale, pregò per Pietro, perché non venisse meno la sua fede (Lc 22, 31-32). Nessuno, infatti, è confermato nella grazia di Dio. Ogni santo è un peccatore in potenza, così come ogni peccatore è un santo in potenza. La fede è un dono di Dio, prima ancora che una conquista umana. Pietro riconosce in Gesù il Figlio di Dio, perché glielo ha rivelato il Padre (Mt 16, 17). Paolo ha conosciuto l’evangelo e il Figlio Gesù Cristo, per rivelazione di Dio (Gal 1, 12.16). Tutti noi abbiamo ricevuto il dono della fede non per mezzo di una rivelazione particolare, ma con il sacramento del battesimo. Dobbiamo conservare questo dono scrupolosamente, memori sia della preghiera con la quale gli apostoli chiedevano che venisse aumentata la propria fede (Lc 17, 6), sia della terribile domanda di Gesù che, un giorno, ebbe a chiedere se il Figlio dell’Uomo al suo ritorno in terra avrebbe trovato ancora la fede (Lc 18, 8).
Caro don Emanuele,
la tua ordinazione presbiterale coincide con la conclusione del mio ministero episcopale nell’Arcidiocesi. Molto difficilmente potrò ancora ordinare sacerdoti diocesani. Approfitto, perciò, di questa occasione per ringraziare il Signore per il fatto che, anche nell’inverno demografico di vocazioni sacerdotali, mi ha dato la gioia di donare alla Chiesa arborense 17 giovani sacerdoti, chiamati a custodire con la testimonianza della vita il dono della fede e il mistero di Cristo, sommo ed eterno sacerdote. Mi congedo parafrasando le parole di San Romualdo prima di separarsi dai suoi monaci: “Ego vobis, vos mihi”: “io con voi, voi con me”; ho pregato per voi e con voi, voi pregate per me e con me.