Parrocchia di Tonara, 28 aprile 2007
È con particolare emozione che oggi ordino sacerdote il diacono don Michele Sau in questa comunità parrocchiale che Dio ha benedetto con tante vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. È la mia prima ordinazione sacerdotale, ossia la prima volta che conferisco il sacramento dell’ordine, il dono più bello che possa trasmettere come vescovo.
Come già in occasione del giovedì santo, oltre che in altre occasioni di ministero episcopale, prendo viva coscienza della pienezza del sacerdozio che sono chiamato ad esercitare e comunicare. La Provvidenza ha voluto che questa ordinazione sacerdotale avvenga alla vigilia del giorno in cui la comunità ecclesiale prega per le vocazioni, nonché nell’ambito della ricorrenza liturgica che evoca la figura del buon pastore. Questa circostanza, come del resto tutte le circostanze della vita, non è un evento del caso, del destino, ma è un preciso momento di grazia, un chairòs, nel quale e attraverso il quale lo Spirito parla non solo a don Michele, ma anche ai suoi parenti ed amici, ai fedeli di questa parrocchia, a tutti noi. Nello specifico, questa circostanza ci invita a meditare sulla figura del buon pastore, così come viene presentata dal vangelo di Giovanni, che, almeno indirettamente, delinea un modello di sacerdote secondo il cuore e l’insegnamento di Gesù.
Alla luce del vangelo odierno, dunque, mi pare che siano tre gli elementi costitutivi di una possibile figura ideale di sacerdote, quale si evince dalla parabola di Gesù: un pastore che conosce personalmente le sue pecore, un pastore che dona la sua vita per le pecore, un pastore che vive in comunione con Dio Uno e Trino. Il pastore, anzitutto, conosce le sue pecore. Il conoscere secondo la Scrittura non è certamente un atto puramente intellettuale, che parte dalla mente e rimane nella mente, una specie di conoscenza che aggiunge una nozione nuova all’idea di Gesù, che si possiede dallo studio della teologia. In senso semitico, la conoscenza implica sempre una relazione interpersonale, un coinvolgimento esistenziale, un atto che parte dalla mente ma tocca il cuore. D’altra parte, la vita cristiana non è un fattore intellettuale, una conoscenza dottrinale di Dio. Un recente film di un regista italiano sulla figura di Gesù ha fatto vedere che se i libri non diventano vita incarnata sono oggetti inchiodati nella rigidità di un sapere inutile.
La vita cristiana nasce da una profonda esperienza di Dio. Solo chi ha esperienza di Dio può parlare di Dio, e il sacerdote oggi più di ieri deve parlare di Dio. Di altre cose può avere solo conoscenza. Di Dio deve avere esperienza. Chi ha provato l’esperienza dell’amore e la gioia del perdono di Dio non può non comunicare questi sentimenti agli altri. Il sacerdote è chiamato a condurre gli uomini ad una esperienza personale ed interiore di Dio. Il vero pastore non ha una conoscenza dei suoi fedeli da anagrafe pastorale, ma un coinvolgimento di destino, una condivisione di ideali di speranza e di fede. Con la sua vita e la sua testimonianza, egli deve condurre i fedeli ad un incontro vivo con Gesù, perché questa è la finalità primaria del ministero sacerdotale: portare i fedeli ad una conoscenza-esperienza di Gesù. Se noi vescovi, noi sacerdoti, noi fedeli non arriviamo a creare questo rapporto interpersonale con Gesù, rischiamo di trasformare il nostro cristianesimo da una scuola di vita in una scuola di pensiero, e di rimanere maestri senza mai diventare testimoni.
In secondo luogo, il buon pastore offre la vita per le sue pecore. Gesù è morto in croce per la nostra salvezza, ossia per liberarci dal peccato e dalla morte. La vita di Gesù è stata una vita per l’altro; una pro-esistenza, perché si è incarnato “per noi uomini e per la nostra salvezza”. Tutto il suo essere è stato un essere per l’altro. Chiunque altro. Gesù non ha scelto chi doveva salvare, ma ha salvato chi sentiva il bisogno di venire fuori dalla sua miseria, chi era peccatore, non chi si credeva di essere nel giusto e non era capace di chiedere aiuto. Il sacerdote che vuole seguire l’esempio di Gesù, allora, è pronto a sacrificare tempo e gusti personali per dedicarsi agli altri, e, in questo dedicarsi agli altri, non può fare distinzioni tra giusti e peccatori, tra degni e indegni. Egli sa che il buon pastore va in cerca della pecorella smarrita, lasciando le altre novantanove nella sicurezza dell’ovile. Gesù, nella parabola odierna, condanna la figura del mercenario cui non importa nulla se non la propria sicurezza e sopravvivenza. La sua condanna, però, si estende agli atteggiamenti da mercenario, riscontrabili nel ministero di quei sacerdoti che scambiano il servizio agli altri con il servizio degli altri, che fanno prevalere l’interesse personale sull’interesse della comunità, che abbandonano il proprio gregge per seguire le voci della moda, dell’opinione pubblica, dei cattivi maestri. Davanti alle difficoltà della vita e del ministero essi sono pronti a scappare, a deviare strada, a rinchiudersi in se stessi, a trasferirsi in luoghi più sicuri.
La logica di Gesù non è quella della fuga. Gesù non è fuggito davanti al pericolo e alla contestazione, non ha scansato il cammino della croce. È rimasto fedele alla volontà di suo Padre, alla sua missione di salvatore dell’umanità. Egli è il “testimone fedele”. Ci saranno sempre donne pie di alto rango e notabili della città, che, come nel caso di Paolo e Barnaba ad Antiochia di Pisidia, saranno sobillate dalla gelosia dei giudei di turno, e perseguiteranno i predicatori delle beatitudini. Ma la sconfitta davanti alla malizia degli uomini non è necessariamente la sconfitta davanti al piano di Dio. Spesso il sacerdote si troverà a consolare coloro “che vengono dalla grande tribolazione”, coloro che come Cristo e con Cristo hanno sofferto e pianto, gridato e lottato. Per essi il sacerdote sarà sempre ospite e pastore che offre una tenda di rifugio e di conforto. Trovano un posto nel suo cuore tutti coloro che soffrono nel silenzio, che mai saranno dichiarati santi, ma che fanno santa la chiesa con la loro fedeltà nascosta e la loro generosità mai esibita. D’altronde, i santuari del mondo sono più numerosi delle chiese parrocchiali, e la preghiera di lode e di ringraziamento trova melodie anche al di fuori delle celebrazioni liturgiche.
In terzo luogo, il buon pastore, sull’esempio di Gesù che è unito al Padre, vive in comunione con Dio. Il centro della personalità di Gesù, quale ci viene descritta dall’ultimo libro di Benedetto XVI, è il suo rapporto con Dio Padre: “il Padre conosce me e io conosco il Padre”. Gesù non è stato un rivoluzionario fallito o un mite moralista; non ha posto al primo posto della sua predicazione il pane, la pace, il benessere. Egli ha portato Dio, ha rivelato Dio, ha riconosciuto il primato della Parola di Dio. Così è stato nelle tentazioni del deserto, nella moltiplicazione dei pani e dei pesci, nell’istituzione dell’Eucaristia. Nel mondo pagano e soprattutto in quello romano, la grande novità del cristianesimo si spiegava con l’attesa, particolarmente sentita nel periodo augusteo, di una comunione tra il mondo degli uomini e quello degli dei. Gli scrittori pagani rimpiangevano l’età degli eroi, perché allora gli dei camminavano in mezzo agli uomini e condividevano con loro nozze e mense. Anche gli uomini e le donne delle nostre comunità parrocchiali hanno un immenso bisogno di comunione con Dio; l’angoscia degli uomini di oggi non è molto diversa dal sentimento che pervadeva gli uomini di ieri. Anche oggi, quando Dio si eclissa si moltiplicano gli idoli e il consumismo del sacro divora la fame della fede e della trascendenza.
Caro don Michele,
tu hai detto che passerà la festa dell’ordinazione ma che Dio non passa. Tu hai scelto ciò che resta: Dio. Ricordati, allora, che l’ordinazione che oggi ricevi ti inserisce in un dinamismo di dono e di condivisione che determina il tuo essere stesso. Il ministero derivato da questa consacrazione si svilupperà lungo una direttrice di comunione, a immagine della Trinità. L'eucaristia che celebrerai è la continuazione dell'ingresso in un movimento di comunione e di reciprocità, in uno slancio che - per mezzo del Figlio, con lui e in lui, nell'unità dello Spirito - fa riconoscere l'unico amore che viene da Dio Padre ed invita a vivere da fratelli. La comunità diocesana, che oggi esulta con te e i tuoi familiari per il dono del sacerdozio, ti accompagnerà sempre nel tuo impegno di mantenere la fedeltà alla Parola, alla celebrazione, al ministero di pastore.
Può darsi che la comunità diocesana che ti accoglie non sia una comunità ideale. Essa, però, ha un grande ideale che vuole vivere con passione ed entusiasmo, ed oggi ringrazia Dio, perché tu poni la tua vita e il tuo ministero al servizio di questo ideale di comunione e di speranza. Dio benedica la famiglia che lasci e la famiglia che trovi, e renda il tuo sacerdozio santo e santificatore!