Cattedrale di Oristano, 28 giugno 2009
L’ordinazione sacerdotale che tra poco conferirò al nostro diacono don Pier Paolo coincide con l’inizio dell’anno dedicato alla riflessione sul ministero e la vita del sacerdote, nonché con la vigilia della festa dei santi Pietro e Paolo, di cui egli porta il nome. Queste coincidenze sono molto significative, perché portano con sé lo spessore delle cose di Dio.
Ogni vicenda umana, di per sé, è abitata da una particolare presenza della Provvidenza divina e deve essere vissuta, quindi, come un momento di grazia e di benedizione. La Parola di Dio che accompagna questa liturgia ci aiuta a vivere bene questo momento di grazia con gli insegnamenti contenuti negli Atti degli Apostoli, nella lettera di S. Paolo ai Galati, nel Vangelo di S. Giovanni. L’apostolo Paolo ci assicura che Dio chiama i discepoli, e, quindi, ognuno di noi, sin dal seno della madre; l’apostolo Pietro proclama che la potenza miracolosa del nome di Gesù è la vera ricchezza che dà la salute del corpo e la salvezza dell’anima; l’evangelista Giovanni evoca il ministero di pastore e guida che Gesù ha affidato al suo Vicario in terra. Questi insegnamenti ci rendono tutti solidali con la missione che viene affidata al novello sacerdote, e corresponsabili della comune testimonianza cristiana di fede e di carità.
Caro don Pier Paolo, oggi, con l’imposizione delle mie mani, tu vieni inserito nell’ordine dei presbiteri. L'espressione “l’ordine dei presbiteri”, che dà il titolo al decreto conciliare sui sacerdoti, mette in risalto soprattutto la prospettiva comunitaria in cui ti devi collocare, per vivere in maniera giusta e fedele il tuo futuro ministero. Non è certamente casuale che il decreto conciliare parli dei sacerdoti quasi sempre al plurale. Non solo. Ma, fin dall’inizio, i presbiteri sono presentati come i collaboratori dell'ordine dei vescovi, legati gli uni agli altri nell'ordine del presbiterato. I presbiteri, precisa il concilio, costituiti nell'ordine del presbiterato mediante l'ordinazione, sono tutti tra loro uniti da un'intima fraternità “sacramentale”, formano un unico presbiterio nella diocesi al cui servizio sono assegnati. Ciascun presbitero è unito agli altri membri del presbiterio da particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità. In quanto membri dell' “ordine dei presbiteri”, questi ultimi hanno un legame intimo e sacramentale che tocca profondamente tutta la loro personalità, struttura la loro vita e trasforma la loro esistenza.
S. Paolo ha scritto che annunciare il vangelo non è un vanto, neppure un mestiere o una scelta personale, bensì una missione ricevuta direttamente da Dio. Anche la tua missione sacerdotale è quella di annunciare la Parola di Dio, di predicare il Vangelo senza sconti. Il Concilio di Trento aveva configurato l'identità del sacerdote nella sua funzione sacramentale e liturgica. Il sacerdote era l'uomo del sacro, che amministra i sacramenti, che celebra il sacrificio. Il Vaticano II ha configurato questa stessa identità nell'annuncio del Vangelo. Giovanni Paolo II ha scritto che il sacerdote "è, anzitutto, ministro della Parola di Dio, è consacrato e mandato ad annunciare a tutti il vangelo del Regno, chiamando ogni uomo all'obbedienza della fede, e conducendo i credenti ad una conoscenza e comunione sempre più profonda del mistero di Dio, rivelato e comunicato a noi in Cristo". "In una parola, i presbiteri esistono ed agiscono per l'annuncio del vangelo al mondo e per l'edificazione della Chiesa in nome e in persona di Cristo Capo e Pastore". Non per nulla, l'annuncio della Parola è l'unica funzione presbiterale sulla quale il popolo di Dio può in qualche modo rivendicare un diritto: "il popolo di Dio viene adunato innanzitutto per mezzo della Parola di Dio vivente, che tutti hanno il diritto di cercare sulle labbra dei sacerdoti" (PO, 4).
La missione di annunciare il Vangelo è strettamente collegata con la chiamata dei presbiteri alla perfezione ed al dovere di tendervi, perché l'esercizio della funzione presbiterale esige e favorisce la santità, richiede un'unità di vita nello svolgimento del ministero, nonché la pratica delle virtù cristiane, considerate come "peculiari esigenze spirituali". Queste particolari esigenze spirituali corrispondono praticamente all'umiltà e ai consigli evangelici della povertà, dell'obbedienza, della castità. I presbiteri sono chiamati a vivere i consigli evangelici con la modalità propria di chi svolge la propria missione non al riparo di un monastero o di una comunità, ma nella condivisione delle gioie e delle tristezze del popolo di Dio. È opportuno precisare, infatti, per quanto riguarda la povertà in modo particolare, che il sacerdote di per sé non è povero, ma vive e deve vivere da povero. Non si può dire, oggettivamente, che il sacerdote, per ruolo, per condizione sociale, per disponibilità di mezzi, sia un povero. Egli, però, è sempre più chiamato e sollecitato ad adottare un tenore di vita povera, uno spirito di abnegazione di sé, ad abituarsi a rinunziare prontamente anche alle cose per sé lecite, ma non convenienti, e a vivere in conformità con Cristo crocifisso. Se la missione del sacerdote richiede di vivere solo, ciò è dovuto al fatto che questa condizione gli permette di dedicarsi ad aiutare tutti i fedeli, senza distinzione alcuna; la solitudine che egli deve conservare è differente dall'isolamento, perché il sacerdote trova modo di agire in comunione con i suoi confratelli nel sacerdozio e con i fedeli della sua comunità.
Ricordati, caro don Pier Paolo, che è più saggio tradurre precetti e comandamenti in stili di vita che imporre autoritariamente norme giuridiche e divieti morali. “L'educazione, sottolinea Benedetto XVI, non può fare a meno di quell'autorevolezza che rende credibile l'esercizio dell'autorità. Essa è frutto di esperienza e competenza, ma si acquista soprattutto con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, espressione dell'amore vero. L'educatore è quindi un testimone della verità e del bene: certo, anch'egli è fragile e può mancare, ma cercherà sempre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione”. L’esperienza pastorale ti dimostrerà che, con la testimonianza di esempi concreti, è possibile evitare l’aborto, praticare l’astinenza, curare i malati terminali e in stato vegetativo persistente, pagare le tasse, gestire il necessario senza rincorrere il superfluo, praticare la fedeltà nel matrimonio e l’onestà con il fisco, dare e accettare il perdono delle offese. Nel tuo futuro ministero, troverai uomini e donne che vivono questi valori, e dimostrano con i fatti che è possibile essere allo stesso tempo cristiani felici e cittadini onesti.
Nel brano della lettera ai Galati che abbiamo ascoltato, S. Paolo ha scritto che il vangelo che si deve annunciare non è modellato sull’uomo. È Parola di Dio, che supera, quindi, i criteri di comportamento e le categorie di pensiero della società contemporanea. Non pensare, perciò, che nella prassi dell’annuncio evangelico, si guadagni in simpatia ed in rilevanza pastorale se ci si adegua al linguaggio volgare della gente. La delicatezza del linguaggio viene apprezzata, perché è specchio di ordine interiore e di disciplina spirituale. Un grande uomo di fede e di cultura, l’accademico francese Jean Guitton, si è rivolto ai sacerdoti del post concilio con queste parole: “Voi perderete sempre, se vorrete uguagliarvi a noi o guidarci sul nostro terreno laico. Voi vincerete sempre, se vi stabilirete con gioia, con forza, con una semplicità radiosa in ciò che è il vostro proprio ed incomunicabile dominio: il sacerdozio. Vi domandiamo innanzi tutto e al di sopra di tutto di dare a noi Dio, soprattutto con quei poteri che solo voi avete: assolvere e consacrare. Vi domandiamo di essere gli "uomini di Dio", come i profeti, i portatori della Parola intemporale, i distributori del Pane della vita, i rappresentanti dell'Eterno fra di noi, gli ambasciatori dell'Assoluto!
E senza l'Assoluto che ci avviluppa noi non potremmo neanche godere del relativo. Or dunque, avendo fame e sete d'assoluto e non trovandolo in nessun posto allo stato puro, noi abbiamo bisogno di avere vicino a noi un essere simile a noi che, anche nella sua mediocrità e nella sua miseria, incarni l'idea dell'Assoluto e ci provi con la sua presenza che può esistere, che è anche più presso noi di quanto noi stessi non pensiamo.