Cattedrale di Oristano, 4 aprile 2010
Il messaggio della Pasqua di risurrezione che risuona nelle nostre chiese è sempre un messaggio di gioia e di festa: “Gesù ha vinto la morte, è risorto, ha creato speranza”. Questo messaggio che costituisce il fondamento della nostra fede è stato diffuso sin dagli albori della storia cristiana, anche se l’evento della risurrezione di Gesù è stato contestato dalla cultura razionalista e per difenderne l’esistenza gli apologisti composero una molteplicità di scritti.
San Paolo ha ribadito ai cristiani di Corinto e di tutti i tempi che se Cristo non fosse risorto la nostra fede sarebbe vana. Nel caso, infatti, che Gesù non fosse risorto, egli non sarebbe Dio, e, di conseguenza, non ci avrebbe liberato dal male e dalla morte. Il messaggio, dunque, in quanto tale, è sempre un invito alla gioia e alla festa. Ma il suo contenuto di vita, di gioia, di speranza, viene recepito ed accolto diversamente a seconda dei luoghi e dei tempi in cui esso viene annunciato, e, soprattutto, a seconda delle persone che lo annunciano. Non sempre, infatti, nella vita dei singoli e della società ci sono i motivi della gioia e le ragioni della speranza. Tra le macerie della gente, vittima dei terremoti dell’Aquila, di Haiti, del Cile, dominano la paura, l’incertezza, la delusione, pericoli di ogni genere. Non si può non provare difficoltà a parlare di speranza ai genitori di tre figli, che faticano per arrivare alla fine del mese con un solo stipendio; agli operai cassintegrati, che non intravedono nessun segnale di superamento della crisi; ai giovani disoccupati, senza lavoro e senza futuro; alle persone che piangono la perdita di congiunti od amici; ai malati che negli ospedali e nelle case di cura consumano le ultime speranze di vita; ai carcerati che scontano la pena senza la prospettiva di una vita migliore. In breve, è terribilmente difficile portare un annuncio di gioia a chi soffre e a chi dispera.
Per quanto riguarda, poi, le persone che lo annunciano, ci possiamo chiedere innanzitutto chi siano coloro che per primi hanno annunciato il messaggio di risurrezione. La risposta del Vangelo è che la prima missionaria della storia, all’alba del primo giorno dopo il sabato, è una donna, Maria di Magdala. Non è la Madre di Gesù, che conservava nel suo cuore le parole di suo Figlio. Non sono neppure i discepoli, che avevano ascoltato la predizione della passione e della risurrezione direttamente dal loro Maestro. È una peccatrice convertita. I “familiari” di Gesù, per così dire, ricevono l’annuncio della sua risurrezione da una donna ex-peccatrice, cioè da una donna che non faceva parte del gruppo privilegiato dei discepoli. Questo fatto deve far riflettere su come la forza dell’amore superi ogni barriera e prescinda dalla stessa appartenenza al gruppo ristretto dei discepoli. Se vogliamo tradurre questo insegnamento nella nostra attualità, possiamo affermare che non tanto la semplice appartenenza ad una comunità ecclesiale, quanto l’amore porta all’incontro con Gesù e alla fede in Lui. Maria di Magdala si muove spinta dal suo bisogno di amore, e il Signore risorto viene incontro a questo bisogno. Non bisogna dimenticare, però, che la donna, inseguendo questo suo bisogno, non riconosce subito il Signore risorto. È il Signore risorto che si presenta e si fa riconoscere chiamando la donna per nome. Ciò sta ad indicare che l’uomo e la donna amano perché sono amati, che l’amore che si dona è la risposta all’amore che si riceve, che il rapporto tra Dio e l’uomo è sempre un rapporto personale, che si realizza nell’intimo della coscienza, al riparo da manifestazioni e risonanze esteriori.
Dunque, la prima testimone è una convertita, ossia una donna che ha sperimentato la gioia del perdono di Dio. Questa verità ci rivela che coloro che sperimentano la gioia del perdono capiscono meglio degli altri che cosa significhi rinascere e ricominciare a sperare. L’esperienza personale della misericordia di Dio è il fattore capace di dimenticare il passato e creare futuro. Spesso è determinante, quindi, non tanto l’esperienza dell’onnipotenza divina, di grandi interventi miracolosi, quanto quella della misericordia di Dio. La Scrittura ci invita: “non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova” (Is 43, 18-19) e ci rassicura che “il Signore è paziente e misericordioso, lento all’ira e ricco di grazia. Il Signore è buono verso tutti, la sua tenerezza si spande su tutte le creature” (Sal 145).
Che l’annuncio della risurrezione sia dato da una donna convertita fa vedere, inoltre, come talvolta la ricerca onesta di “quelli di fuori” ci faccia apprezzare il privilegio del nostro stare dentro la Chiesa. Forse non apprezzeremo mai abbastanza la bellezza del dono della fede e della vita in una comunità cristiana. L’insicurezza e la solitudine di chi è fuori della Chiesa ci possono insegnare a custodire ed apprezzare il valore dell’amicizia di Dio e della fede nella sua bontà.
Ma se è vero questo, allora, la conseguenza immediata di questa verità è che se vogliamo evangelizzare gli altri dobbiamo essere prima evangelizzati noi stessi; se vogliamo convertire gli altri dobbiamo essere prima convertiti noi stessi. Il racconto della risurrezione di Gesù ci dice che i primi ad essere evangelizzati sono stati i discepoli. Vale a dire, solo se si è evangelizzati, cioè se si crede nel Cristo risorto si può annunciare la risurrezione. Secondo S. Paolo, la nostra vita è “nascosta con Cristo in Dio”. Ciò equivale a dire che Dio è presente nel nostro cuore, senza ostentazioni e manifestazioni esteriori. Colui che conduce una “vita nascosta con Cristo in Dio” accetta di portare il Crocifisso nel cuore e non solo di vederlo appeso sulle pareti degli uffici pubblici. Costui non chiede di essere liberato dalla croce, di scendere dalla croce, ma di portarla con coraggio e determinazione. La fede, infatti, non ci dà una sofferenza in meno, ma una motivazione in più.
Proviamo a chiederci, ora, quale Chiesa oggi annunci il vangelo e quali siano i testimoni credibili. Non si saranno forse indebolite le parole di noi vescovi, dei preti, delle suore, dei teologi, degli operatori pastorali, e si saranno rafforzate le parole dei “poveri”? Dei “poveri”, infatti, è il regno dei cieli! I ricchi di beni materiali, di scienza e conoscenza, di fiducia nella tecnica e nel progresso, non sentono il bisogno di rivolgersi a Dio. I “poveri”, invece, sentono il bisogno di chiedere l’aiuto di Dio. La moderna propaganda degli anarchici, degli atei, dei radicali razionalisti predica che si può essere felici senza Dio, anzi che per essere felici e senza preoccupazioni morali bisogna fare a meno di Dio. L’umanità, però, ha bisogno di “poveri” che proclamino e testimonino con vigore un Dio misericordioso. Intuì quest’urgenza pastorale, in modo profetico, Giovanni Paolo II, che è stato un grande apostolo della divina misericordia. Al Padre misericordioso dedicò la sua seconda enciclica, e lungo tutto il suo pontificato si fece missionario dell’amore di Dio a tutte le genti. Dopo i tragici avvenimenti dell’11 settembre 2001, che oscurarono l’alba del terzo millennio, egli invitò i cristiani e gli uomini di buona volontà a credere che la misericordia di Dio è più forte di ogni male, e che solo nella Croce di Cristo si trova la salvezza del mondo. Nel gennaio scorso, una “povera” dell’Ostello della Caritas presso la Stazione Termini di Roma salutò Benedetto XVI con queste parole: «Le garantisco che noi pregheremo per lei. Perché Dio Le dia la forza di essere sereno e forte e pieno di speranza come lo siamo noi. Qui lei trova dolore, certamente, ma se dovesse, nel viaggio di ritorno, poter portare con lei una cosa soltanto, porti, la prego, la speranza». Il Papa, commosso fino alle lagrime, rispose: «Attraverso i gesti, gli sguardi e le parole di quanti prestano qui il loro servizio, numerosi uomini e donne toccano con mano che le loro vite sono custodite dall’Amore, che è Dio, e grazie ad esso hanno un senso e un’importanza… Questa certezza profonda genera nel cuore dell’uomo una speranza forte, solida, luminosa, una speranza che dona il coraggio di proseguire nel cammino della vita nonostante i fallimenti, le difficoltà e le prove che la accompagnano».
“Le vere stelle della nostra vita sono le persone che hanno saputo vivere rettamente. Esse sono luci di speranza. Certo, Gesù Cristo è la luce per antonomasia, il sole sorto sopra tutte le tenebre della storia. Ma per giungere fino a Lui abbiamo bisogno anche di luci vicine – di persone che donano luce traendola dalla sua luce ed offrono così orientamento per la nostra traversata". (Benedetto XVI).