Cattedrale di Oristano, 24 aprile 2011
Nel racconto dei martiri della città di Abitene, nell’odierna Tunisia, si afferma che un cristiano non che è il cristiano a fare la Pasqua domenicale, sicché l'uno non può sussistere senza l'altro, e viceversa? Quando senti il nome 'cristiano', sappi che vi è un'assemblea che celebra il Signore: e quando senti dire 'assemblea', sappi che lì c'è il cristiano".
Dunque, è una questione di identità. La Pasqua domenicale è l'essenza stessa del cristiano, il suo statuto, anzi è il cristiano stesso; un'identità che costituisce il credente in Cristo nel suo essere e che deve esprimersi nel suo agire e nel suo operare.
Il fatto, ora, che i martiri di Abitene non potessero vivere senza la domenica evidenzia molto bene l’importanza della celebrazione della Pasqua di resurrezione. In qualche modo, noi cristiani di oggi dovremmo ripetere che “non possiamo vivere senza la grande Pasqua”, origine e fonte della piccola pasqua domenicale. Quando parliamo della Pasqua non indichiamo un cibo, una medicina, una casa, un lavoro. Con la Pasqua indichiamo la fede nella risurrezione di Gesù Cristo. Chi ha questa fede è come se avesse un cibo, una medicina, una casa, un lavoro. Chi non ha questa fede è come se non avesse cibo, né medicina, né casa, né lavoro. La fede nella risurrezione di Gesù Cristo, tuttavia, è molto di più di tutte queste cose. Queste cose, infatti, le possiamo avere in questa vita, ma sono tutte precarie, incerte, inevitabilmente destinate a finire. L’esperienza condivisa ci insegna che anche l’amore più grande finisce, anche l’uomo e la donna più sani muoiono. La Pasqua, invece, in quanto fede nella risurrezione di Gesù Cristo, dona una dimensione d’eternità a tutto quello che desideriamo e che vorremmo possedere per sempre. La Pasqua è la risposta alla nostra domanda di infinito. Per papa Benedetto XVI, “la fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti”.
Noi abbiamo bisogno della Pasqua tutte le volte che chiudiamo gli occhi ad una persona cara, che suggeriamo pazienza ad una persona sofferente, che chiediamo perdono da una persona ferita. Ne abbiamo bisogno quando siamo tentati di gettare la spugna davanti alle difficoltà della vita. Ne abbiamo bisogno quando sentiamo la nostalgia delle cose belle che non ci sono più. Quando sentiamo il bisogno di credere, perché solo la fede rende accettabili le domande senza risposta. La Pasqua non è un racconto che impariamo sui banchi di scuola. È un modo di vivere, di sperare, di essere felici, come dice lo stesso proverbio: “contento come una pasqua”. I sociologi scrivono che la religione è in declino, che si può fare a meno di Dio. La Pasqua ci dice, però, che se muore Dio nascono gli idoli. Perdiamo la salvezza che può darci Dio, senza acquistare la salvezza che non possono darci gli idoli.
La sera del prossimo 25 giugno, a conclusione della celebrazione del congresso eucaristico diocesano, ripeteremo insieme: “resta con noi Signore, perché si fa sera e il giorno già volge al declino”. Ma vogliamo ripeterla anche oggi, nella celebrazione della Pasqua di resurrezione, origine e fondamento della presenza di Gesù nella Chiesa e nel mondo. Vogliamo che questa celebrazione non rimanga un semplice ricordo d’un’esperienza passata, ma diventi l’impegno a mantenere un modo cristiano di vivere e di sperare. I discepoli di Emmaus riconobbero Gesù come loro messia e salvatore allo spezzare il pane. Mi auguro che anche noi, che siamo chiamati a spezzare il pane dell’Eucaristia nelle nostre comunità, possiamo riconoscere chi è Gesù per noi, per la nostra vita, la nostra felicità, la nostra pace, la nostra morte. Ricordiamoci, tuttavia, che questo riconoscimento lo conserviamo in un vaso di creta, ossia nella precarietà e debolezza dei nostri sentimenti e delle nostre convinzioni. Dobbiamo pregare, perciò, come hanno fatto gli apostoli, perché il Signore ci conservi sempre questo riconoscimento e ci rinnovi il dono della fede.
I discepoli di Emmaus hanno ammesso che “ardeva loro il cuore nel petto mentre Gesù conversava con loro lungo il cammino e spiegava le Scritture”. Può darsi che anche noi in diverse occasioni spirituali abbiamo provato gli stessi sentimenti, che abbiamo provato entusiasmo per la nostra appartenenza ecclesiale e per la testimonianza della nostra fede cristiana. Ma non sempre le circostanze della vita ci permettono di sentire il calore del fuoco che arde. Ci sono anche momenti in cui il fuoco è nascosto sotto la cenere e ci manca il coraggio di rimuovere quella cenere. Allora, dobbiamo ripetere con umiltà l’invocazione: resta, o Signore, nelle nostre comunità, perché ci sia pace, condivisione, accoglienza. Resta nelle nostre famiglie, perché ci sia amore, costanza, fedeltà. Resta nelle nostre scuole, perché ci sia formazione, sapienza, disciplina. Resta nelle nostre città e nei nostri paesi, perché ci sia ordine, rispetto, decoro. Resta nelle nostre amministrazioni civiche perché prevalga sempre la promozione del bene comune e la cura di chi è nel bisogno. Resta nei nostri ospedali, perché ci sia speranza per chi soffre e umanità per chi cura. Resta nelle nostre carceri, perché al pentimento segua la volontà del riscatto.
Nessuno può conservare per sé il dono della fede e l’amicizia di Gesù. Come i discepoli di Emmaus, deve ritornare alle occupazioni quotidiane per annunciare che “il Signore è risorto”. Chi è perdonato nella sua colpa, come la Samaritana; chi è assolto dal suo peccato come l’adultera; chi è convertito dalla sua malizia come Zaccheo; chi è commensale di Gesù come i discepoli di Emmaus non può non diventare missionario d‘una vita nuova e d’una felicità interiore. Deve impegnarsi per la pace e contro la guerra, per la giustizia e contro sfruttamento, per la libertà e contro le schiavitù occulte, per la civiltà della vita contro la cultura della morte. La speranza cristiana guarda sempre al di là della morte.
Cari fratelli e sorelle,
auguro a tutti una santa Pasqua e la capacità di scorgere ragioni di vita e di speranza oltre il confine di ogni morte.