Pasqua 2016

Cattedrale di Oristano, 27 marzo 2016

Ancora una volta abbiamo cantato l’inno della Chiesa: “Alla vittima pasquale s’innalzi oggi il sacrificio di lode. Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa”.

Con questo inno, professiamo solennemente che Gesù Cristo è risorto dai morti, il Crocifisso ha sconfitto il peggiore dei mali, la morte, e, risorgendo, ha donato lo Spirito ai suoi discepoli, mandandoli ad annunciare il suo Vangelo in tutto il mondo. Se noi siamo qui riuniti in questa Chiesa Cattedrale, come comunità di fede, lo dobbiamo a quell’annuncio, che, tanto tempo fa è arrivato nella nostra Isola, ed ha creato cultura, costruito civiltà, orientato stili di vita, motivato scelte morali. I riti della settimana santa che sono stati celebrati in tutti i paesi della Diocesi sono il momento più alto della religiosità popolare della nostra gente, fondata su quell’annuncio. Attraverso questi riti, il mistero centrale della fede cristiana è stato evocato e rappresentato con accenti di alta poesia e toccante drammaticità spirituale.

Ora, questa professione di fede, in qualche modo, è sempre la stessa. La ripetiamo ogni anno, nella celebrazione della Pasqua di risurrezione. Ma la celebrazione non è mai la stessa, perché la vita non è mai la stessa, è in continuo cambiamento. Cambia, quindi, il mondo in cui questa professione di fede viene vissuta e testimoniata. Se, da una parte, infatti, parafrasando il detto di un filosofo non credente, ammettiamo che “non possiamo non dirci cristiani”, dall’altra parte, tuttavia, dobbiamo ammettere che il cristianesimo comincia ad essere osteggiato, e la secolarizzazione delle credenze e dei costumi diventa sempre più aggressiva e invadente.

Si è arrivati a un punto tale di secolarizzazione che ci si domanda a che cosa serva la Chiesa, e, soprattutto, se serva ancora una Chiesa che annunci la risurrezione di Cristo, determini la m dei comportamenti, proietti la felicità e la salvezza oltre la vita terrena. Questa domanda interpella non solamente il Vescovo, pastore e guida della comunità, ma ogni cristiano, chiamato ad essere missionario, a vivere e testimoniare la sua fede, la sua speranza, la sua carità. Non è una domanda retorica, quindi, ma sorge spontanea dall’esame d’una situazione socio-culturale nella quale facciamo sempre più fatica a testimoniare il nostro stile di vita e le nostre convinzioni religiose. Si mette in discussione la presenza dei cappellani nell’esercito, negli ospedali, nelle carceri; del crocifisso nelle aule pubbliche, di qualsiasi forma di richiamo confessionale nelle scuole di Stato. Cresce il numero dei giovai che chiedono lo sbattezzo, di coloro che scelgono il matrimonio civile o la semplice convivenza di fatto. Spesso la Chiesa che serve, quella che viene riconosciuta e apprezzata dagli amministratori della cosa pubblica, è ridotta ad una agenzia umanitaria per supplire le carenze dello Stato nella lotta alle nuove e vecchie povertà, nella difesa dei posti di lavoro, nella gestione dell’accoglienza dei migranti e dei rifugiati.

Ma questa non è la Chiesa che dobbiamo vivere e testimoniare, anche se il Concilio ci ricorda che niente di ciò che è umano ci lascia indifferenti e che non possiamo rimanere a fare i dirimpettai della società, a stare sul balcone dei nostri principi per guardare dall’alto la vita che scorre nelle strade della miseria e della povertà. La Chiesa è presente in molte strutture caritative, per garantire uno stile di accoglienza e di cura, rispettare ogni persona, non trattare nessuno come un numero o come un semplice “ospite” delle Case di Riposo. Abbiamo detto tante volte che non basta essere religiosi ma bisogna essere cristiani, che non basta essere credenti ma bisogna essere anche credibili. Non possiamo, perciò, ridurre la nostra religiosità alla pratica di riti, novene, devozioni. Queste pratiche religiose e devozionali ci sono, sono buone, ci devono essere. Ma non bastano. Il mondo sta cambiando. L’epoca delle ideologie, per cui si aveva una visione totale della storia, dell’uomo, della società, è tramontata. Le strutture concettuali che danno significato alla fede sono di continuo contraddette, come, per esempio, il concetto di natura, di verità, di persona. È urgente, perciò, lavorare per costruire insieme una grammatica etica, basata su valori universalmente condivisi, perché una società sta in piedi solo se dispone di una tavola di valori condivisi.

La Parola di Dio che anima le nostre liturgie ripete infinite volte l’invito a non piangere, non temere, non avere paura! L’esortazione a non aver paura è stata quella più frequentemente ripetuta da Giovanni Paolo II e ripresa dai successori papa Benedetto e papa Francesco. Ma, osserva P. Ermes Ronchi, nella meditazione dettata agli esercizi spirituali della Curia Romana, “la paura non è tanto assenza di coraggio quanto mancanza di fiducia”, ossia paura di cadere nell’inganno di credere in “un Dio che toglie e non in un Dio che dona”. Si commette l’errore, cioè, che hanno commesso Adamo ed Eva, i quali si sono lasciati persuadere dal demonio e hanno creduto che Dio ruba libertà, invece d’offrire possibilità.

In effetti, Dio non ruba ma promuove la nostra libertà, non ci teleguida ma ci rende responsabili delle nostre scelte e dei nostri orientamenti. Il teologo luterano, vittima del nazismo, Dietrich Bonhoeffer ha scritto giustamente che: “Dio non salva dalla sofferenza ma nella sofferenza, non protegge dal dolore ma nel dolore, non salva dalla croce, ma nella croce. Dio non porta la soluzione dei nostri problemi, porta se stesso e dandoci se stesso ci dà tutto”. Magari, si pensa che il Vangelo dovrebbe risolvere magicamente i problemi del mondo, dovrebbe fare diminuire le violenze e le crisi della storia. In realtà, l’esperienza di tutti i giorni ci dice che non è così. Anzi, il Vangelo porta spesso con sé rifiuto, persecuzioni, altre croci.

Che cosa fare, allora, per vincere la paura e conservare la fiducia in Dio? Gesù ci insegna che il solo modo per vincere la paura è la fede! La missione della Chiesa, perciò, è alimentare la fede nel Cristo risorto per liberare gli uomini e le donne dalla paura, dalla sfiducia, dallo scoraggiamento. “Per un lungo tempo – sostiene P. Ronchi – la Chiesa ha trasmesso una fede impastata di paura che ruotava attorno al paradigma colpa/castigo, anziché su quello di fioritura e pienezza”. Questa paura ha prodotto e produce “un cristianesimo triste, un Dio senza gioia”. Se professiamo che Cristo è risorto, che ha vinto la morte, che ha piegato il cielo sulla nostra esistenza, siamo chiamati ad essere testimoni di gioia. La sofferenza non scomparirà per incanto, la violenza continuerà a uccidere e creare disperazione e dolore. Ma il cristiano nutre la fiducia che, alla fine, il male sarà sconfitto e il destino dell’uomo non è quello di precipitare nell’abisso del nulla ma di approdare sulla sponda della vita eterna.

Cari fratelli e sorelle,

auguro che la rinnovata professione della nostra fede porti un supplemento di fiducia nel Cristo Risorto. Egli ha vinto il mondo e ha sconfitto le potenze del male; ci ha promesso di stare sempre con noi; ci ha dato la “sua” pace. In questo anno di grazia e di misericordia, usiamo questo patrimonio di fiducia, per dare e ricevere conforto, dare e ricevere perdono, dare e ricevere l’augurio d’una Pasqua che ci liberi dalla paura del futuro e ci doni la gioia del presente.