Cattedrale di Oristano, 28 agosto 2015
“Vegliate, perché non sapete né il giorno né l’ora in cui il Signore viene”. Questo è l’ammonimento della parabola del Vangelo di S. Matteo. Per il nostro confratello don Angelo il Signore è venuto nell’ora del vespro del 26 agosto, all’età di quasi 99 anni. Un’età che ha superato abbondantemente i confini di benedizione della Scrittura, secondo la quale la vita
degli uomini è di 70 anni ed è piena di acciacchi, mentre per i più robusti è di 80 (Sal 90, 10). Il Signore, visitandolo alla fine dei suoi giorni, lo ha trovato preparato, perché alla preghiera del viatico che gli era stato amministrato pochi minuti prima che spirasse ha risposto con voce stranamente ferma: “amen”. Una bella risposta che traduceva una duplice disposizione interiore: quella di un “eccomi”: per dire che era pronto per entrare nella casa del Padre; quella di un sigillo a un ministero sacerdotale di 75 lunghi anni, iniziato nel giugno del 1940, in piena seconda guerra mondiale, con l’ordinazione sacerdotale per l’imposizione delle mani di Mons. Giuseppe Cogoni.
Il suo ministero sacerdotale ha conosciuto diverse mansioni. Ai primi tre anni di viceparroco nella parrocchia di S. Efisio sono seguiti altri tre anni di parroco nella parrocchia di S. Andrea in Ula Tirso. Conclusa questa prima esperienza, è rimasto per tanti anni parroco della Cattedrale, prima, e Rettore del Santuario del Rimedio, poi. Con generosità e competenza ha svolto importanti servizi nella direzione del settimanale diocesano “Vita Nostra”, come canonico penitenziere, come professore di lettere in Seminario e di religione nelle scuole di Stato. Io l’ho conosciuto quando ancora aveva la capacità di leggere con ironia le vicende della vita diocesana, e di aprire il cuore della sua carità sacerdotale all’aiuto di persone povere, senza né cercare né avere la ricompensa da nessuno se non dalla voce sua coscienza di sacerdote di Cristo. Probabilmente, le sue ultime parole sono state quelle pronunciate due giorni prima della morte: “vi voglio bene, grazie!”
Il Vangelo di oggi ci richiama il dovere cristiano della vigilanza e della prudenza. La vita di fede, infatti, è un tirocinio coraggioso di vigilanza, a difesa della propria spiritualità, delle proprie scelte morali, della forza della coerenza e della fedeltà. Il pellegrinaggio terreno che tutti siamo chiamati a compiere ha senz’altro la meta precisa, indicata dalla stessa parola di Gesù e inaugurata dalla consacrazione battesimale, ma non ha la sicurezza della strada per giungervi e del percorso da compiere. Ad ogni angolo della vita ci sono tentazioni di successo, pericoli di salute, conflitti di generazioni, perdita di ideali. Per il sacerdote, in modo particolare, ci sono le tentazioni interne, come quella del potere ecclesiastico della “stola”, che vorrebbe prevalere sul servizio evangelico del “grembiule”, da prestare ad ogni persona che cerca Dio con cuore sincero. La stessa professione di fedeltà alle norme canoniche costringe spesso il sacerdote alla sofferenza di dire di no a richieste, legittime nelle intenzioni personali, inaccettabili nell’economia della comunità ecclesiale.
La Chiesa non può essere un’azienda umanitaria, dispensatrice di servizi religiosi, offerti al miglior prezzo e alle migliori condizioni. La Chiesa è una comunità di battezzati, fondata dallo stesso Gesù, cui solo si deve fedeltà assoluta, pur nel rispetto delle scelte personali, fatte in contrasto con la fede e la morale cristiane. Non esiste una “Chiesa fai da te”, fondata su proprie devozioni personali, proprie leggi di spiritualità, scorciatoie dai percorsi comunitari vincolanti. La Chiesa è di Gesù Cristo e talvolta, come accadde ai discepoli che ascoltavano la sua predicazione, il suo discorso è molto duro e si vorrebbe cambiare strada e andare da un’altra parte. In effetti, secondo quanto ci riferisce il Vangelo di San Giovanni, “molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui” (Gv 6, 66).
In quelle circostanze, S. Pietro ha dimostrato che si può accettare il Vangelo senza sconti e ha fatto la sua professione di fede in Gesù Cristo, affermando chiaramente che solo in Gesù si trovano parole di vita eterna (cfr. Gv 6, 68), ossia significati di gioia e di dolore, di ricerca e di speranza, di amore e di compassione. S. Paolo, nella sua lettera alla comunità di Tessalonica, l’odierna Salonicco, ha esortato i cristiani di quella comunità, e, in essi, anche noi, a vincere le passioni terrene e credere nella risurrezione futura. Ai nostri giorni, la difficoltà a credere nella risurrezione si chiama reincarnazione. La stampa riferisce di infelici tentativi di produrre delle fotocopie della vita terrena attraverso costosi processi di ibernazione. Non ci si rende conto che simili processi riproducono solamente la sofferenza d’una vita terrena, sottoposta ai limiti invalicabili della natura umana. Non giova molto prolungare nel tempo illusioni e desideri, progetti e aspirazioni. Non ci si può portare al di fuori e al disopra dei liniti dello spazio e del tempo per costruirsi una vita felice. Scienza e fede, buon senso e criterio pratico denunciano l’inutilità di tali promesse. Dal suo canto, Gesù ha promesso la vita eterna senza richiedere polizze assicurative, ma solo fede nella sua risurrezione, “primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15, 20). “Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, ha scritto S. Paolo, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8, 11). La vita eterna promessa, però, non è il semplice prolungamento della vita terrena, ma una nuova condizione di pienezza umana e felicità senza tramonto.
Il peccato delle vergini stolte consiste nel vivere ancorate al presente senza pensare al futuro. È il peccato della mancanza di prospettiva, dell’impossibilità di guardare oltre e guardare avanti, propria di chi colloca le sue speranze e le sue attese nella vita terrena. Ma la Scrittura, nella lettera agli Ebrei, ci ricorda che noi “non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura” (Eb 13, 14), ossia la nostra patria è nel cielo. È il cielo aperto che colora il mare dei desideri e dei sogni. Il cielo chiuso tinge di grigio il mare, restringe l’orizzonte, deprime gli animi e crea solitudine. S. Agostino, di cui oggi facciamo memoria liturgica, ha cambiato la storia profana in storia di salvezza, perché da una semplice successione di giorni e stagioni l’ha cambiata in un intreccio di interventi divini, realizzazione della promessa di salvezza eterna. Ha scritto che il nostro cuore è inquieto fino a quando non riposa in Dio. Nei pochi giorni che sono stato in ferie ho potuto toccare con mano questa inquietudine in alcune persone che ho incontrato e che mi hanno chiesto di confessarle. In esse la ricerca di Dio era sincera e trasparente, perché i bisogni dell’anima non sono meno sentiti dei bisogni del corpo. Non si può vivere senza sogni, senza futuro, senza orizzonti d’infinito.
Cari fratelli e sorelle,
il sacerdote è la persona che più di altre parla della morte ed ha familiarità con essa. Ma, prima o dopo, non parla più della morte degli altri; arriva la sua ora, e per questa si deve preparare bene, per viverla in comunione con Gesù, via, verità e vita. Don Angelo oggi ci parla con la sua morte e ci dice: vegliate, pregate, siate prudenti, aprite il cuore a Dio. Ognuno risponda a questo invito non adesso, con le buone parole. Da adesso, con la vita buona.