Cattedrale di Oristano, 6 gennaio 2011
Saluto con viva cordialità anzitutto i familiari, parenti, amici dei nostri diaconi don Alessio, don Fabio, don Michelino, venuti da vicino e da lontano per accompagnare con la preghiera la loro consacrazione al servizio della Chiesa e del prossimo. Saluto i confratelli nel sacerdozio,
che oggi si uniscono al vescovo per impetrare sugli ordinandi il dono dello Spirito ed accoglierli simbolicamente nella grande famiglia del presbiterio diocesano.
La Provvidenza ha disposto che l’ordinazione presbiterale dei nostri diaconi avvenga nella Chiesa Cattedrale nel giorno della solennità dell’Epifania del Signore. Alla luce della fede, mi piace considerare queste due circostanze come due messaggi su come concepire e vivere due dimensioni della vita sacerdotale: la diocesanità e la missionarietà. Per quanto riguarda la prima dimensione, la diocesanità, la Chiesa Cattedrale è il cuore della Diocesi, è la Chiesa Madre. La Sacrosanctum Concilium ne ribadisce il profondo significato, scrivendo che “il vescovo deve essere considerato come il grande sacerdote del suo gregge: da lui deriva e dipende in certo modo la vita dei suoi fedeli in Cristo. Perciò tutti devono dare la più grande importanza alla vita liturgica della diocesi che si svolge intorno al vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale, convinti che c’è una speciale manifestazione della Chiesa nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri” (SC, 41). Secondo questo testo, le celebrazioni liturgiche che vi si svolgono, quando il popolo di Dio è radunato sotto la presidenza del vescovo, rappresentano una particolare manifestazione della Chiesa. Per questo la cattedrale è modello esemplare per la diocesi sia in quanto chiesa-edificio sia per la celebrazione della liturgia.
Oggi voi, cari diaconi, siete ordinati presbiteri in servitium dioceseos, come si diceva una volta, cioè sacerdoti in servizio della diocesi. Questo comporta che la vostra famiglia, ormai, sia la diocesi. Parafrasando il titolo del volume di Y. Congar La mia parrocchia vasto mondo, si può asserire che la vostra parrocchia è la vasta diocesi, per cui non siete chiamati a chiudervi in una determinata chiesa o in un determinato servizio, ma a sentirvi responsabili di tutte le chiese e di tutti i ministeri.
Dovete essere disposti ad esercitare il ministero dovunque il bene della diocesi lo richieda. Siate sempre fedeli, perciò, alla promessa di obbedienza che tra poco farete nelle mani del vescovo. Quella promessa è un impegno davanti a Dio e alla comunità di mettere la vostra persona a servizio dell’intera Diocesi. L’obbedienza è ancora una virtù ed è garanzia di unità, di comunione, di serenità interiore.
Ma qual è il ministero che siete chiamati a svolgere a partire dall’odierna consacrazione? S. Paolo, scrivendo ai cristiani di Efeso, lo chiama “il ministero della grazia di Dio affidato a beneficio della comunità”. Questo ministero è il cuore della seconda dimensione, la missionarietà, legata alla solennità dell’epifania del Signore. Nella visione del profeta Isaia che ha aperto l’odierna liturgia della Parola, “le tenebre ricoprono la terra una nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su Gerusalemme risplende il Signore e la sua gloria appare su di lei”. Trasportata la visione profetica ai nostri giorni e alla nostra situazione, possiamo dire che sulla vita della comunità diocesana incombono minacce di tenebra e di nebbia. Le potenze del male assumono diversi volti e si nascondono sotto diverse apparenze. In queste circostanze, il ministero della grazia di Dio fa spingere lo sguardo oltre queste tenebre e queste nebbie, perché la luce del Signore è più potente delle tenebre del male, le testimonianze del bene operato sono superiori alle contro testimonianze del male subito. La grazia di Dio vince il peccato dell’uomo. Molte volte, ha scritto un grande sacerdote tedesco, P. Josef Kentenich, gli sconvolgimenti sono necessari. Essi sono, però, la prima tappa della ricostruzione delle rovine e il primo passo della speranza dei disperati. Oggi, in questa chiesa cattedrale, risplendono tante luci. Vogliamo sperare che esse siano il simbolo della luce del Vangelo che dovete annunciare, delle Beatitudini che dovete vivere, della vita dei santi che dovete imitare.
La missionarietà che siete chiamati a vivere non vi chiede di lasciare i nostri paesi e andare in terre lontane. La missionarietà è una dimensione interiore e costitutiva del sacerdozio. Così come la Chiesa, secondo Paolo VI, o è missionaria o non è Chiesa, anche il sacerdote o è missionario o non è neppure sacerdote. La missione ormai deve essere praticata anche nei nostri paesi dove la gente sta perdendo i valori propri della visione cristiana della vita, della famiglia, dell’amore, della libertà. Alla cultura della sobrietà e della vita si sta sostituendo una cultura del consumismo e della morte. Per illuminare e redimere questa cultura c’è bisogno della stella di Betlemme. I magi, attirati dalla luce della stella, sono arrivati da molto lontano e si sono inchinati dinanzi alla sapienza “altra” del Figlio dell’Uomo, alla regalità originale di un bambino, destinato non ad essere servito dai giusti da premiare ma a mettersi a servizio dei peccatori da salvare.
Quale guida della stella offre oggi la Chiesa con i suoi ministri, le sue istituzioni, le sue iniziative? Il papa evoca la guida di “tutti quei presbiteri che offrono ai fedeli cristiani e al mondo intero l’umile e quotidiana proposta delle parole e dei gesti di Cristo, cercando di aderire a Lui con i pensieri, la volontà, i sentimenti e lo stile di tutta la propria esistenza”.
Ne sottolinea “le loro fatiche apostoliche, il loro servizio infaticabile e nascosto, la loro carità tendenzialmente universale”, e loda la “fedeltà coraggiosa di tanti sacerdoti che, pur tra difficoltà e incomprensioni, restano fedeli alla loro vocazione: quella di “amici di Cristo”, da Lui particolarmente chiamati, prescelti e inviati.”
Benedetto XVI porta nel cuore il ricordo del primo parroco accanto al quale esercitò il suo ministero di giovane prete: egli gli lasciò l’esempio di una dedizione senza riserve al proprio servizio pastorale, fino a trovare la morte nell’atto stesso in cui portava il viatico a un malato grave. Conserva memoria dei sacerdoti che ha incontrato e che continua ad incontrare, anche durante i suoi viaggi pastorali nelle diverse nazioni, generosamente impegnati nel quotidiano esercizio del loro ministero. Ricorda, inoltre, le innumerevoli situazioni di sofferenza in cui molti sacerdoti sono coinvolti, sia perché partecipi dell’esperienza umana del dolore nella molteplicità del suo manifestarsi, sia perché incompresi dagli stessi destinatari del loro ministero. Non sono pochi i sacerdoti offesi nella loro dignità, impediti nella loro missione, a volte anche perseguitati fino alla suprema testimonianza del sangue.
Cari don Alessio, don Fabio, don Michelino,
sentitevi chiamati non a dare prova della vostra abilità organizzativa, delle vostre amicizie influenti, ma ad annunciare la Parola di Dio. I fedeli vogliono vedere nelle vostre opere e nel vostro ministero il volto di Dio che ama, che comprende, che perdona. Sulle vostre spalle sta per cadere una enorme responsabilità: quella di manifestare il volto di Dio. Infatti, il sacerdote, “dev’essere soprattutto un "uomo di Dio", come lo descrive san Paolo (1Tm 6, 11). Perciò “la cosa più importante nella vita sacerdotale è il rapporto personale con Dio in Gesù Cristo. Il sacerdote non è l’amministratore di una qualsiasi associazione, di cui cerca di mantenere e aumentare il numero dei membri. È il messaggero di Dio tra gli uomini. Vuole condurre a Dio e così far crescere anche la vera comunione degli uomini tra di loro”. Come vostro pastore, vi auguro di cuore di essere sempre uomini di Dio e uomini di comunione.