Cattedrale di Oristano, 19 giugno 2016
È con particolare gioia spirituale che do il cordiale benvenuto in questa Chiesa Cattedrale a tutti voi, qui raccolti per unirvi alla mia preghiera consacratoria con la quale ordino presbitero del clero arborense il nostro diacono don Paolo Baroli.
Saluto con viva cordialità i confratelli nel sacerdozio provenienti da vicino e da lontano per concelebrare questa Eucaristia, i genitori, i parenti, gli amici di don Paolo, i seminaristi e i Superiori del Seminario Diocesano e del Seminario Regionale, tutti voi, fratelli e sorelle in Cristo.
Nella mensa della Parola di questa celebrazione l’evangelista ci offre uno spaccato della vita di Gesù, che interpella non solo il sacerdote ma tutti noi, definiti da papa Francesco: “popolo fedele di Dio, il grembo da cui il presbitero è tratto, la famiglia in cui è coinvolto, la casa a cui è inviato”.
In un primo momento, il Vangelo presenta Gesù in un luogo solitario mentre prega e conversa familiarmente con i suoi discepoli. Con loro Egli tenta di fare una specie di verifica della sua predicazione e della sua attività, e, in tutta confidenza, chiede loro: ma, secondo voi, la gente ha capito chi sono io e che cosa vado facendo e predicando? Che cosa dice di me? E voi, che cosa dite? Dalle risposte dei discepoli risulta che nessuno aveva veramente capito che lui era il Messia e il Figlio di Dio. Ciò che veniva percepito dalla gente era la sua grandezza profetica, per cui questa lo considerava al massimo un grande inviato da Dio, un profeta come Giovanni Battista o Elia. È vero che Pietro fa una solenne professione di fede e riconosce Gesù come il Cristo, ma Gesù gli dice subito che “né la carne né il sangue glielo hanno rivelato, ma il Padre che sta nei cieli". Ribadisce che "Nessuno conosce il Figlio se non il Padre" (Mt 11, 27); "Nessuno può andare a lui se non lo attira il Padre che lo ha mandato" (Gv 6, 44). E san Paolo conferma: "Nessuno può dire: Gesù è Signore, se non sotto l'azione dello Spirito Santo" (1Cor 12, 3). In altri termini, se anche noi non vogliamo ridurre Gesù, il Figlio di Dio, a un grande profeta, un maestro di morale, un taumaturgo, abbiamo bisogno dell’aiuto della fede, e dell’azione dello Spirito. Testimoniamo Gesù con la nostra vita di fede, prima ancora che con le molteplici strategie pastorali della comunicazione.
In realtà, Gesù era veramente il Messia tanto atteso, ma la sua dimensione messianica era diversa da quella concepita dal popolo giudaico, che, concretamente, si aspettava un liberatore dalla dominazione romana e un restauratore politico del regno di Davide. Questa, poi, era la convinzione degli stessi discepoli, che litigavano per prenotarsi un ruolo personale di potere. Gesù, tuttavia, pur operando miracoli e gesti prodigiosi propri del Messia, non si presentò mai come tale per non creare un equivoco sulla sua persona e sulla sua missione.
D’altra parte, equivocare la missione di Gesù non era solo la tentazione dei suoi contemporanei e dei suoi discepoli, ma può essere anche la tentazione dell’immaginario collettivo dei nostri giorni, soprattutto quando Lo si riduce a un “mago” e si scambia la Sua Chiesa per un’agenzia territoriale di promozione umana.
Nel secondo momento, il Vangelo presenta Gesù che si rivolge a tutti i suoi seguaci, per dare un’indicazione di vita spirituale radicata nella capacità di rinnegare se stessi e di prendere la propria croce. Ora, questa verità paradossale non può non coinvolgere la vita del sacerdote. Si ripete ancora: sacerdos alter Christus, il sacerdote è un altro Gesù. Il paragone potrebbe suonare esagerato e, come tale, viene criticato da qualche purista di linguaggio dottrinale. Però, nella celebrazione dell’Eucaristia, il celebrante opera in persona Christi, sia nella mensa della Parola che in quella del Pane di vita. Certamente, esiste un forte rapporto con Cristo del fedele battezzato e cresimato, come ci viene ricordato da San Paolo, nella lettera ai Galati che abbiamo poc’anzi ascoltato: “tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Gesù Cristo, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3, 26). Ma al sacerdote si chiede qualcosa di più. Si chiede quasi di identificarsi con Gesù, di prestargli le mani e la bocca per santificare e benedire. Con San Paolo, egli deve arrivare a dire: “non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me” (Gal 2, 20).
Al sacerdote in modo particolare si chiede di prendere la sua croce ogni giorno, perché ogni giorno è chiamato ad amare. Pondus meum amor meus: il mio peso è il mio amore, ha scritto S. Agostino (Confess. 13, 9, 10). Per chi soffre e non sa amare, ogni giorno è fonte di tristezza. Per chi soffre e sa amare, ogni giorno è Pasqua. “Il presbitero, dice Papa Francesco, sa che l’Amore è tutto. Egli non cerca assicurazioni terrene o titoli onorifici, che portano a confidare nell’uomo; nel ministero per sé non domanda nulla che vada oltre il reale bisogno, né è preoccupato di legare a sé le persone che gli sono affidate. Il suo stile di vita semplice ed essenziale, sempre disponibile, lo presenta credibile agli occhi della gente e lo avvicina agli umili, in una carità pastorale che fa liberi e solidali. Servo della vita, cammina con il cuore e il passo dei poveri; è reso ricco dalla loro frequentazione. È un uomo di pace e di riconciliazione, un segno e uno strumento della tenerezza di Dio, attento a diffondere il bene con la stessa passione con cui altri curano i loro interessi”.
“Quanta tristezza fanno coloro che nella vita stanno sempre un po’ a metà, con il piede alzato, continua Papa Francesco! “Calcolano, soppesano, non rischiano nulla per paura di perderci … Sono i più infelici! Il vero presbitero, invece, con i suoi limiti, è uno che si gioca fino in fondo: nelle condizioni concrete in cui la vita e il ministero l’hanno posto, si offre con gratuità, con umiltà e gioia. Anche quando nessuno sembra accorgersene. Anche quando intuisce che, umanamente, forse nessuno lo ringrazierà a sufficienza del suo donarsi senza misura. Ma – lui lo sa – non potrebbe fare diversamente: ama la terra, che riconosce visitata ogni mattino dalla presenza di Dio. È uomo della Pasqua, dallo sguardo rivolto al Regno, verso cui sente che la storia umana cammina, nonostante i ritardi, le oscurità e le contraddizioni. Il Regno – la visione che dell’uomo ha Gesù – è la sua gioia, l’orizzonte che gli permette di relativizzare il resto, di stemperare preoccupazioni e ansietà, di restare libero dalle illusioni e dal pessimismo; di custodire nel cuore la pace e di diffonderla con i suoi gesti, le sue parole, i suoi atteggiamenti”.
Caro Paolo,
sono contento di averti seguito nel discernimento della tua vocazione sin dall’inizio e di averti accolto in Seminario dopo che hai sentito la chiamata al sacerdozio nel corso del pellegrinaggio che abbiamo fatto insieme a Loreto. Ora, con l’imposizione delle mani, ti accolgo con gioia nel cenacolo del nostro presbiterio e ti auguro di fare del tuo futuro ministero sacerdotale un pellegrinaggio di prete “scalzo” e “senza agenda”, per benedire, confortare, perdonare “il popolo santo di Dio con cui operi e nel cui cuore vivi”.