Cattedrale di Oristano, 2 febbraio 2010
Quest’anno la giornata della vita consacrata, in stretto legame con la solennità liturgica della Presentazione del Signore, la celebriamo nel contesto dell’anno sacerdotale, dedicato alla riflessione sulla natura e la missione del sacerdote.
Tutta la Chiesa, a diversi livelli, e con diversa modalità, ha risposto all’appello del papa con momenti di riflessione, di preghiera, di condivisione e di incontri. Anche noi, in qualche modo, questa sera, ci vogliamo unire alla riflessione e alla preghiera corale della Chiesa universale. Nella liturgia della Parola che abbiamo ascoltato, infatti, il brano della Lettera agli Ebrei ci aiuta a riflettere su come vivere la nostra consacrazione alla luce del sacerdozio comune dei fedeli, ossia della consacrazione al servizio di Dio e, allo stesso tempo, consacrazione al servizio dell’uomo. L’autore della lettera agli Ebrei presenta innanzitutto la base e il fondamento di ogni ministero sacerdotale: la solidarietà umana del Figlio di Dio. L’essenza del sacerdozio si rivela soprattutto nella dimensione e nell’esercizio della solidarietà. Il sacerdote è un uomo solidale. Gesù, il sommo sacerdote del Nuovo Testamento, è la realizzazione massima della solidarietà, perché ha riavvicinato la terra al cielo, ha ristabilito il ponte della comunione tra Dio e gli uomini, è morto sulla croce per redimere ogni forma di morte e dare speranza ad ogni destino di sofferenza. La Scrittura ci insegna che “Egli non si prende cura degli angeli ma della stirpe di Abramo”. Egli non è rimasto nella gloria della liturgia celeste, ma è sceso in mezzo agli uomini per animare la liturgia terrestre. Gesù per diventare sommo sacerdote dovette rendersi in tutto simile ai fratelli. Non solo. Per essere in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova si è sottoposto alla prova, dando esempio di piena fedeltà a Dio suo Padre. La triplice tentazione che Gesù ha dovuto affrontare all’inizio del suo ministero pubblico è lo specchio della fedeltà a Dio in tutte le circostanze della vita, il modello di coerenza e di fermezza quando si inizia una missione affidata da Dio.
Dall’identità sacerdotale di Gesù, ora, deriva la dimensione sacerdotale della vita consacrata e la modalità con cui questa solidarietà viene praticata nell’esercizio del proprio carisma. Ogni carisma di consacrazione, si sa, comporta una testimonianza particolare di solidarietà. I modi di essere vicini a chi soffre, a chi spera, a chi vive e a chi muore, sono molteplici, ed ognuno di essi diventa un segno della bontà divina. La prima condizione, però, per parlare al cuore degli uomini è partire dal cuore di Dio; in altri termini, per parlare di Dio è necessario avere una profonda esperienza di Dio. “È cosa buona insegnare, se chi parla pratica ciò che insegna”, ha ammonito S. Ignazio di Antiochia, dopo aver sottolineato che è meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo. Un grande teologo tedesco ha scritto che il cristiano di domani o sarà un mistico o non sarà un cristiano, intendendo per mistico ovviamente non colui che gode di visioni o rivelazioni, ma colui che ha motivazioni sicure della propria vocazione e della propria missione. La persona consacrata è chiamata ad un esercizio esemplare di cristianesimo, e, perciò, ad una testimonianza di amore della propria missione. Perché la solidarietà umana non scada in una pura forma di filantropia deve essere animata dalla comunione con Dio. Nel fratello e nella sorella da aiutare noi non vediamo il semplice essere umano, ma scorgiamo il volto di Cristo. Ogni volta che, in nome di Gesù, si dà un solo bicchiere d’acqua ad un fratello assetato lo si dà a Gesù stesso. Dall’amore di Dio sgorga il vero amore del prossimo. È Dio che ci ha amato per primo e che ci chiede di amare in Lui e per mezzo di Lui ogni fratello ed ogni sorella. I maestri di vita spirituale ci ripetono sempre: contemplata aliis tradere: trasmettere agli altri ciò che si contempla, ossia trasmettere agli altri l’esperienza della comunione con Dio.
Questa esperienza e comunione con Dio deve trasparire in tutti i momenti dell’esercizio della propria missione, sia che essa si svolga nelle corsie degli ospedali, nei quartieri malfamati delle grandi città, nelle aule scolastiche, nelle case di riposo, nei seminari, nelle celle dei monasteri. La gioia spirituale della propria consacrazione è contagiosa. Una vita felice non può non trasmettere sentimenti di felicità, di pace, di ottimismo, di speranza. Anche la preghiera dei monasteri di clausura è una sublime forma di solidarietà. Il mondo ha bisogno di spiritualità, di anima, e la preghiera delle persone consacrate viene incontro a questa necessità. Se è vero che abbiamo bisogno di tanti Giosuè che combattano la battaglia del male, della solitudine, del vizio, è anche vero che abbiamo bisogno di tanti Mosè che tengano le mani alzate al cielo, da dove ci viene ogni aiuto ed ogni consolazione. Molte persone che trovano il coraggio di guardare con fiducia il proprio futuro, che ritrovano sentieri di comunione e di fedeltà, che ritrovano il gusto di vivere e la rassegnazione del morire, non sapranno mai chi devono ringraziare per gli aiuti ricevuti dall’alto, ma noi sappiamo che dietro ogni miracolo interiore c’è un’anima che prega e che soffre.
Cari fratelli e sorelle,
il messaggio dei vescovi italiani per la giornata della vita consacrata ricorda tre occasioni nelle quali il santo Curato d’Ars ha ricevuto giovamento dall’incontro con persone consacrate: la Prima Comunione, la preparazione al sacerdozio, il desiderio costante di una vita contemplativa. “Quanto alla Prima Comunione, a preparare Giovanni Maria Vianney furono due religiose il cui convento, negli anni della rivoluzione francese, era stato distrutto e la cui comunità era stata dispersa. Le chiese erano chiuse e per pregare ci si doveva nascondere. Per la celebrazione della Prima Comunione fu scelta una casa di campagna. Era il tempo della mietitura: per precauzione, davanti alle finestre erano stati allineati carri di fieno, che vennero scaricati durante la funzione. Le madri avevano portato, ben nascosti sotto i lunghi mantelli, il velo per le bambine e la fascia per i fanciulli. San Giovanni Maria Vianney non dimenticherà mai la grazia di quel giorno e anche dopo molti anni ne parlerà con commozione. Si sentì sempre debitore nei confronti delle due religiose che, con sprezzo del pericolo e fedeli alla loro consacrazione, lo accompagnarono a ricevere, per la prima volta, Gesù nel sacramento dell’Eucaristia”.
“Anche la formazione al sacerdozio mise in contatto il Vianney con la vita consacrata. Figura assolutamente fondamentale per il suo cammino fu l’Abbé Charles Balley, Canonico Regolare di Sant’Agostino, un vero confessore della fede ai tempi della rivoluzione francese. Parroco di Ecully, gli venne presentato il giovane Vianney, ormai quasi ventenne, perché gli fornisse la formazione necessaria per diventare prete. Inizialmente cercò di sottrarsi a tale compito che gli pareva eccessivo, considerata l’età del giovane e il fatto che fosse quasi analfabeta. Ma poi ebbe un’improvvisa intuizione. Fissato lo sguardo su di lui, assunse il proposito di prenderlo con sé e di sacrificarsi per lui. Lo accompagnerà così fino al sacerdozio e lo terrà per due anni come vicario parrocchiale”.
“Va infine ricordata l’aspirazione del Santo Curato d’Ars alla vita contemplativa. Dopo due anni di presenza ad Ars emerse il suo dramma interiore: si sentiva inadeguato alla cura pastorale, ritenendo di non avere scienza e virtù sufficiente. Giudicava un atto di presunzione l’aver accettato l’incarico. Si domandava se la sua vera vocazione non fosse piuttosto la solitudine e la contemplazione. Per tutta la vita proverà, come intimo tormento, la tentazione di lasciare il gregge per avere più tempo per la preghiera e la meditazione. Sarebbe andato volentieri in una trappa o in una certosa, ma i superiori non acconsentirono a tale aspirazione. Quanto a lui, il suo tormento interiore non ne intaccò l’impegno pastorale, a cui si dedicò con tutte le forze, di giorno e anche di notte, per la vita intera. Fu un vero pastore con l’anima del contemplativo”.
Cari testimoni dell’oltre, a conclusione di questa mia breve riflessione, auguro che anche voi, come la profetessa Anna che è stata evocata dalla liturgia della Parola, possiate sempre lodare Dio, e dare ragioni di speranza a quanti cercano Dio con cuore sincero.