Cattedrale di Oristano, 2 febbraio 2012
L’icona della liturgia odierna è rappresentata molto bene dal vecchio Simeone che porta il bambino in braccio e dal bambino che sostiene il vecchio. Abbiamo evocato questa icona con la preghiera dell’antifona dei primi vespri della Presentazione del Signore al tempio.
Il vecchio che porta il bambino è immagine del lungo cammino dell’umanità verso la meta del cielo, della ricerca continua di Dio, del bisogno profondo di trovare pace in Lui. S. Agostino ha interpretato molto bene questo bisogno di Dio quando ha scritto che il cuore dell’uomo è inquieto sino a quando non trova pace nel cuore di Dio. In effetti, non è possibile fare a meno di Dio, anche quando lo si vuole combattere e al tempio della sua presenza si vuole sostituire il tempio dell’ateismo. Il filosofo e scrittore Alain de Botton sostiene che come i cristiani hanno le loro chiese, i musulmani le loro moschee, gli ebrei le loro sinagoghe, anche gli atei devono avere il loro tempio, “un luogo dedicato all’amore, all’amicizia, al raziocinio, a tutto quanto c’è di positivo al di fuori della religione”. Ma per la nostra fede è Gesù che sostiene il mondo con la potenza della sua Parola, che anima le vicende della storia umana. Egli è ormai il luogo privilegiato dove si incontra e si sperimenta l’efficacia della grazia. Il tempio dei giudei è stato costruito in 46 anni (Gv 2, 20) ed è stato distrutto dalla potenza militare dei romani. Il tempio di Gesù non è costruito da mani d’uomo, ma esiste da sempre nel mistero eterno di Dio Uno e Trino. Il suo ingresso nel mondo mediante l’Incarnazione ha rivelato il volto di Dio Padre, come ci ricorda la sua risposta a Filippo: “Filippo, chi vede me vede il Padre” (Gv 14, 9).
La poetessa premio Nobel polacca Wislawa Szymborska, deceduta ieri a Varsavia, ha scritto che “alla nascita di un bimbo il mondo non è mai pronto”. È proprio così. Non so se la nascita di Gesù abbia trovato preparato il nostro cuore, le nostre case, le nostre coscienze, le nostre scuole, le nostre famiglie, le nostre comunità religiose. Indubbiamente, non saremo mai sufficientemente preparati ad accogliere degnamente la perfezione infinita di Dio. Non potremo mai eguagliare la grandezza del suo amore e la bellezza della sua bontà. C’è una distanza incommensurabile tra l’amore di Dio e il nostro amore, tra il perdono di Dio e il nostro perdono. Dio è veramente più grande del cuore dell’uomo. Ma, se la poetessa polacca riflette l’esperienza umana, quando scrive “devo molto a chi non amo”, il messaggio del Vangelo riflette l’esperienza divina, che, invece, ci fa confessare: dobbiamo molto a chi ci ama, perché “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito” (Gv 3, 16), e “nessuno ha un amore più grande di dare la vita per i propri amici” (Gv 15, 13). È vero, quindi, che Dio è più grande del cuore dell’uomo; ma è anche vero che Egli ha bisogno degli uomini, è amico degli uomini. Proprio la festa odierna ci fa vedere quanto profonda sia la comunione di Gesù con noi, perché egli si è inserito pienamente nella nostra storia, sottoponendosi alla legge mosaica come tutti gli uomini, senza esigere alcun privilegio o esenzione.
Come ci presenta, ora, il vecchio Simeone la persona di Gesù? Come “Luce per illuminare le genti” (Lc 2, 32). Così lo ha presentato anche il Concilio Vaticano II, inaugurato cinquant’anni fa. “Luce delle genti” è, infatti, il nome del documento centrale del Concilio sulla natura e la missione della Chiesa. Veramente, nel mistero di Gesù trova luce il mistero dell’uomo! Nella sua comunione ogni uomo diventa più uomo. Gesù è “Luce delle genti”, perché dà ad ognuno che Lo cerca con cuore sincero il senso della vita e della morte, della salute e della malattia, delle lacrime e del sorriso. I religiosi che si pongono alla sequela di Gesù sono particolarmente chiamati a riflettere questa luce nelle vicende della vita. Per questo fine, non basta, però, portare in processione i ceri accesi. Questi illuminano la faccia e i passi di chi cammina. Bisogna portare alto il cero della novità cristiana, delle scelte evangeliche, della testimonianza dell’oltre.
I vescovi italiani, nel messaggio per la giornata della vita consacrata, ribadiscono che “oggi più che mai, abbiamo bisogno di educarci a comprendere la vita stessa come vocazione e come dono di Dio, così da poter discernere e orientare la chiamata di ciascuno al proprio stato di vita. La testimonianza dei consacrati e delle consacrate, attraverso la sequela radicale di Cristo, rappresenta anche da questo punto di vista una risorsa educativa fondamentale per scoprire che vivere è essere voluti e amati da Dio in Cristo istante per istante.
La sequela di Cristo, casto, povero e obbediente, costituisce di per sé una testimonianza della capacità del Vangelo di umanizzare la vita attraverso un percorso di conformazione a Cristo e ai suoi sentimenti verso il Padre. Inoltre, la natura stessa della vita consacrata ci ricorda che il metodo fondamentale dell’educazione è caratterizzato dall’incontro con Cristo e dalla sua sequela. Non ci si educa alla vita buona del Vangelo in astratto, ma coinvolgendosi con Cristo, lasciandosi attrarre dalla sua persona, seguendo la sua dolce presenza attraverso l’ascolto orante della Sacra Scrittura, la celebrazione dei sacramenti e la vita fraterna nella comunità ecclesiale. È proprio la vita fraterna, tratto caratterizzante la consacrazione, a mostrarci l’antidoto a quell’individualismo che affligge la società e che costituisce spesso la resistenza più forte a ogni proposta educativa. La vita consacrata ci ricorda così che ci si forma alla vita buona del Vangelo solo per la via della comunione”.
Cari fratelli e sorelle,
sia questa la vostra missione, questa la bellezza della vostra testimonianza.