Cattedrale di Oristano, 2 febbraio 2013
Il tema dell’odierna giornata della vita consacrata è: “Testimoni e annunciatori della fede”. Questa indicazione di programma spirituale, tradotto in termini semplici, equivale a dire che i religiosi sono annunciatori perché testimoni, e non diventano testimoni se non sono annunciatori.
La comunicazione dell’esperienza di vita, infatti, è più convincente della comunicazione d’una idea o dell’insegnamento d’una dottrina. I religiosi non sono a servizio di una ideologia e neppure di un determinato piano d’azione pastorale, ma sono testimoni dell’oltre, ossia d’uno stile di vita che richiama il cielo, che invita a guardare sopra il sole. La condizione di crisi generale di mezzi e risorse ci costringe a guardare in basso, alla terra, ai bisogni quotidiani dell’esistenza. Bisogna, però, avere il coraggio di guardare il cielo, per trovare un senso a ciò che si fa nel quotidiano, e, soprattutto, a ciò che si vuole essere nel futuro. L’invito a guardare il cielo non è, ovviamente, un invito ad alienarsi, a chiudere gli occhi davanti ai problemi della gente, a trascurare l’impegno personale e comunitario per migliorare le condizioni della vita terrena. È, invece, un invito ad essere lievito e sale della terra, a dare un supplemento di anima alle attività quotidiane e feriali. I religiosi sono sempre presenti nel mondo anche se non sono del mondo; sono soprattutto attivi nel campo della carità, dell’assistenza ai poveri, della solidarietà con i deboli, con i malati, con gli anziani, con gli emarginati dalla società perbenista. Essi sono tra i più sensibili nel capire e nell’affrontare le necessità materiali e morali della gente.
Il pastore luterano Dietrich Bonhoeffer aveva scritto che chi sta con un piede sulla terra merita di essere con un piede anche in cielo, per sottolineare che chi si trova a disagio su questa terra sarà a disagio anche in cielo. Ebbene, i religiosi non si trovano a disagio sulla terra; hanno i piedi ben saldi sugli ambienti in cui vivono, sono a contatto con la gente, e sanno benissimo che chi cura i bisogni dell’anima non trascura mai i bisogni del corpo. Sono ben coscienti che un corpo non può vivere senza spirito così come uno spirito non può vivere senza un corpo. Secondo il Concilio, “unità di anima e di corpo, l’uomo sintetizza in sé, per la stessa sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore” (GS, 14).
Recentemente, per descrivere la situazione sociale dell’Italia, è stato proposto un neologismo particolare: “la restanza”. Si dice, cioè, che quando si è in crisi e tutto sembra venir meno, è quasi automatico far conto su quello che resta. Questo neologismo, tuttavia, non descrive di per sé una situazione di limite, quasi che voglia dire che quando non abbiamo più risorse umane, quando non c’è più alcuna prospettiva di rinascita o di crescita, ci rivolgiamo alla preghiera e invochiamo l’aiuto dall’alto. Se, infatti, applichiamo questo neologismo alla vita cristiana e parliamo della “restanza della fede”, con ciò intendiamo dire che è necessario ritornare all’essenziale, a quello che conta veramente, cioè alla fede purificata da ogni sovrastruttura romantica e pietistica. La fede sincera e trasparente è fiducia totale in Dio. Se crediamo alla parola di Dio, non possiamo cadere nello scoraggiamento, nella rassegnazione, perché ciò significherebbe che non crediamo alla promessa di Dio. Ma Dio mantiene la sua promessa, come lo dimostra tutta la storia della salvezza, da Abramo in poi. È stata semmai l’infedeltà del popolo eletto a tradire e deludere la fiducia di Dio. La promessa di Dio, se è veramente di Dio e non una sua manipolazione da interpretazioni e strumentalizzazioni peregrine, non può né illudere né deludere. Questo lo sanno, per esperienza diretta, i santi che, nelle diverse epoche e nei diversi luoghi, sono vissuti fidandosi sempre dell’aiuto di Dio e della sua Provvidenza.
Benedetto XVI, nel suo recente volume dedicato all’infanzia di Gesù, ha parlato di “parole senza padrone”, riferendosi alle profezie che attendevano di essere realizzate. Quelle parole e quelle profezie hanno trovato un padrone in Gesù, il Messia atteso da coloro che, come il giusto Simeone, “aspettavano la consolazione d’Israele”. Ciò che è avvenuto nella storia di Gesù si deve ripetere nella vita e nella missione di coloro che sono i continuatori della sua opera di salvezza, di coloro, cioè, che non sono alunni e seguaci d’una scuola di pensiero, ma testimoni d’un amore senza calcolo e d’una bontà senza ricompensa. La missione dei religiosi è quella di essere i custodi delle parole giuste, che danno un significato d’eterno alle cose del mondo ed un volto umano al mistero di Dio. I due personaggi del vangelo odierno, Simeone e Anna, entrambi in età avanzata, sono i giusti che riconoscono e accolgono il bambino Gesù come il Salvatore di tutti gli uomini. Il loro incontro con Gesù è determinante, perché, secondo Benedetto XVI, l’incontro con un avvenimento, con una Persona, dà alla vita un nuovo orizzonte e la direzione decisiva (Deus caritas est, 1). Nel suo documento per l’istituzione del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione il papa ha ribadito che “alla radice di ogni evangelizzazione non vi è un progetto umano di espansione, bensì il desiderio di condividere l’inestimabile dono che Dio ha voluto farci, partecipandoci la sua stessa vita” (Ubicumque et semper, introduzione).
In buona sostanza, il messaggio evangelico della festa della presentazione del Signore al tempio ci insegna che la fede non consiste solo nel possesso delle necessarie nozioni sull’identità di Cristo, bensì su una relazione personale con Lui, che comporta l’adesione di tutta la persona, ossia dell’intelligenza, della volontà e dei sentimenti alla manifestazione che Dio, in Gesù Cristo, fa di se stesso. “La fede è un fiducioso affidarsi a un «Tu», che è Dio, il quale mi dà una certezza diversa, ma non meno solida di quella che mi viene dal calcolo esatto o dalla scienza. La fede non è un semplice assenso intellettuale dell’uomo a delle verità particolari su Dio; è un atto con cui mi affido liberamente a un Dio che è Padre e mi ama; è adesione a un «Tu» che mi dona speranza e fiducia. Certo questa adesione a Dio non è priva di contenuti: con essa siamo consapevoli che Dio stesso si è mostrato a noi in Cristo, ha fatto vedere il suo volto e si è fatto realmente vicino a ciascuno di noi... Avere fede, allora, è incontrare questo «Tu», Dio, che mi sostiene e mi accorda la promessa di un amore indistruttibile che non solo aspira all’eternità, ma la dona; è affidarmi a Dio con l’atteggiamento del bambino, il quale sa bene che tutte le sue difficoltà, tutti i suoi problemi sono al sicuro nel «tu» della madre” (Benedetto XVI).
Cari fratelli e sorelle,
portate sempre nella realtà quotidiana in cui vivete la gioia della vostra consacrazione al Signore. Siate testimoni di fede, ma anche di speranza e, soprattutto di carità. La fedeltà al vostro carisma diventi trasparenza di grazia e benedizione. Portate luce e calore nei deserti spirituali delle nostre comunità. La Chiesa e il mondo hanno bisogno di voi. Grazie soprattutto perché richiamate il cielo senza dimenticare la terra.