Giornata della vita consacrata

Cattedrale di Oristano, 2 febbraio 2014

“Profeti peccatori, che oggi, seguendo Cristo, con tenerezza eucaristica, hanno il compito di svegliare il mondo dal suo torpore”. Questo l’ideale che papa Francesco ha proposto ai religiosi, nel suo colloquio con i Superiori Maggiori degli Ordini Religiosi Maschili, il 29 novembre scorso.

Ed è alla luce di questo nobile e alto ideale che vorrei riflettere brevemente sul senso della celebrazione annuale, che dedichiamo alla vita consacrata, in occasione della memoria liturgica della presentazione del Signore al Tempio.

Maria e Giuseppe portano il loro primogenito al Tempio di Gerusalemme, per presentarlo al Signore, come prescrive la Legge di Mosè. Non sappiamo se nell’adempiere a questo dovere cultuale Maria e Giuseppe avessero la sensazione di portare al Tempio il Figlio di Dio, o un bambino misterioso, di cui dovevano ancora capire la futura missione. Non sappiamo nulla della loro psicologia, delle loro preoccupazioni, delle loro attese. I Vangeli non riportano alcune indicazioni di questo tipo. Nel Tempio, i genitori di Gesù incontrano due anziani israeliti, Simeone e Anna, di cui S. Luca dice che sono giusti e pii, digiunavano e pregavano nel Tempio. L’arte cristiana ha immortalato la gioia del vecchio Simeone che tiene in braccio il bambino, mentre la liturgia delle Ore fa notare che, in realtà, non è il vecchio che regge il bambino ma il bambino che regge il vecchio. In questo abbraccio tanto affettuoso è racchiuso il simbolo di tutta l’attesa di salvezza dell’umanità, così bene espressa dalla preghiera di Simeone: ora posso anche andare in pace, perché “i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele”. L’atteso delle genti, il salvatore promesso dai profeti è presente in una condizione umana di umiltà e nascondimento. Questa condizione di umiltà, in certo modo, è la consacrazione dello stile della presenza di Dio nel mondo e nella storia.

La prima dimensione, ora, dell’ideale della vita religiosa evidenziato dalle parole del Papa è quella della “profezia di peccatori”. In altri termini, il mondo della vita religiosa è chiamato a svolgere la sua missione profetica, nonostante la sua condizione di peccaminosità. Il Signore ha scelto per rappresentarlo uomini e donne, che, nella strada della perfezione cristiana, sperimentano tentazioni, errori, fatiche. Questi uomini e queste donne, nonostante tutto, sono a servizio della rivelazione della bontà e della misericordia del Signore. Dio ha bisogno di uomini e donne, che non innalzino muri di divisione o barriere rituali, che non siano solo custodi gelosi di norme e divieti, ma che abbiano cuore, compassione, accoglienza. “Un religioso che si riconosce debole e peccatore non contraddice la testimonianza che è chiamato a dare, ma anzi la rafforza, e questo fa bene a tutti.”

“Senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, esorta papa Francesco nell’Evangelii Gaudium, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno. Ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile. Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute”.

La seconda dimensione dell’ideale di vita religiosa è “seguire Cristo”. Bisogna ribadire continuamente il dovere della sequela e del discepolato di Gesù, perché i religiosi sono a servizio di una persona e non di un programma di spiritualità o di un metodo di pedagogia cristiana. Quando Gesù ha chiamato gli apostoli, la prima condizione che pose loro è stata quella di “stare con lui”. Il dovere primario degli apostoli, quindi, è quello di essere con Cristo, nella preghiera, nella meditazione, nella contemplazione. Solo in un secondo momento, gli apostoli sono stati inviati sino ai confini del mondo, per annunciare il Vangelo e battezzare ogni creatura nel mone di Dio Uno e Trino. Se manca la base portante della comunione con Cristo, però, ogni annuncio è vuoto. In ultima analisi, il religioso non è solo un uomo o una donna d’una determinata spiritualità, ma un testimone di Cristo, e di Cristo vivo e risorto.

Come terza dimensione il papa parla di “tenerezza eucaristica”. È un’espressione originale che il papa ha preso dall’inno dei Primi Vespri della solennità di San Giuseppe del breviario argentino, in cui si chiede al Santo di custodire la Chiesa con tenura de eucaristìa, “tenerezza eucaristica”. Il contesto della conversazione nella quale il papa ha usato l’espressione è l’esortazione a vivere la fraternità religiosa. “Bisogna trattare i fratelli con tenerezza eucaristica”, ha ribadito. “Bisogna accarezzare il conflitto. La tenerezza eucaristica non copre il conflitto, ma aiuta ad affrontarlo da uomini”. Se è vero che l’eucaristia è pane spezzato, allora la tenerezza eucaristica comporta la capacità di spezzare il pane della pazienza, della compagnia, della compassione con chi soffre, con chi cerca la strada della conversione; la capacità di venire incontro ai bisogni dell’anima, che non sono meno forti dei bisogni del corpo. Molte volte, uno sguardo di tenerezza e una parola di cortesia e d’incoraggiamento sono molto più efficaci d’un atteggiamento di severità.

Infine, una quarta dimensione è quella di “svegliare il mondo”. È l’aspetto che ha colpito di più l’opinione pubblica. Nessun commentatore si è fermato a sottolineare il dovere dei consacrati di usare “tenerezza eucaristica” nei rapporti interpersonali, o di stare con il Signore nella preghiera e nella contemplazione. Tutti, invece, hanno sottolineato l’appello a svegliare il mondo facendo chiasso, perché la profezia deve far rumore, deve far chiasso. In realtà, svegliare il mondo vuol dire aiutare la gente a guardare il cielo, per staccarsi dalle preoccupazioni materiali e cercare senso e gratificazione oltre le soddisfazioni puramente terrene. Troppo spesso siamo come travolti dalle preoccupazioni per le cose della terra e ci dimentichiamo delle cose del cielo. Se a tutti i cristiani si chiede di dare un supplemento di anima alle istituzioni nelle quali essi vivono e operano, ai consacrati si chiede in modo particolare di aiutare il popolo di Dio ad “alzare gli occhi verso i monti”, perché “il nostro aiuto viene dal Signore, che ha fatto il cielo e la terra”. Si chiede di essere testimoni di un modo diverso di fare, di agire, di vivere. Si chiede di essere veri profeti e di non giocare ad esserlo. Si chiede, infine, di essere nostri compagni di viaggio per piegare il cielo sul cammino faticoso della fede. Camminando insieme, e camminando tutti, costruiremo un futuro diverso!